Questa volta la definizione più appropriata del Consiglio europeo, svoltosi il 20-21 ottobre a Bruxelles, l’ha espressa il premier italiano Matteo Renzi, che ha parlato di un vertice “ordinario” e “di routine”. Cosa potrebbe significare? Che, come accaduto tante altre volte, l’incontro dei capi di Stato e di governo dell’Ue ha consentito di misurare nuovamente le distanze tra le posizioni dei 28 Paesi membri su molteplici argomenti, di giungere a qualche convergenza – pur senza ricadute operative – in politica estera, e di ribadire che esiste una volontà comune di costruire un’Europa forte, sicura e ricca. Ma ciascuno vorrebbe farlo a modo suo.
Dissonanze e stonature. Anzitutto le distanze. Riguardano, al momento, soprattutto le modalità per affrontare i flussi migratori in arrivo da Africa e Medio Oriente.
Le parole d’ordine che tutti ripetono sono le solite: “Proteggere le frontiere esterne” e “prevenire la migrazione illegale”.
Quando invece si toccano i tasti dell’accoglienza “solidale” (andando incontro ai quei Paesi, come Italia e Grecia, sottoposti alle maggiori pressioni migratorie), dei ricollocamenti, della prevenzione dei flussi mediante investimenti e cooperazione allo sviluppo con le nazioni povere, allora il vocabolario comune diventa una babele. Gli Stati dell’Est si sfilano (senza addurre motivazioni plausibili e dimenticando gli aiuti ricevuti dal resto d’Europa per rimettersi in carreggiata dopo decenni di comunismo), altri promettono ma raramente mantengono… E a proposito di dissonanze nel concerto europeo, differenze sostanziali si riscontrano anche in politica estera – sul caso-Siria, sui rapporti con la Russia -, sul rispetto delle regole del Patto di stabilità e crescita, sui tempi e le modalità per dar corso al Brexit.
Convergenza a parole. Rispetto alla volontà condivisa di proseguire il cammino dell’integrazione comunitaria, i discorsi tendono a sottolineare la bontà dell’esperienza storica dell’Ue (pace, rispetto dei diritti fondamentali, mercato unico e sviluppo economico e sociale, progressivo avvicinamento tra i popoli del Vecchio Continente); ma se si torna all’attualità,
ogni governo propone la sua ricetta oppure sostiene semplicemente una “unione à la carte” che, tradotto in soldoni, significa che ciascuno prende ciò che gli interessa,
trascurando gli impegni assunti e sottoscritti nei Trattati. In questo senso l’Ue fatica a fare dei passi avanti, che si tratti – solo per fare qualche esempio – di rafforzare l’euro mettendo al sicuro i conti pubblici dei singoli Stati, di scendere in campo per la soluzione della guerra in Siria e per annientare la minaccia dell’Isis e del terrorismo, di dar vita a una politica energetica concertata ed efficace sul piano ambientale, o di instaurare una politica commerciale con i grandi partner mondiali. Su un punto, però, traspare la medesima preoccupazione che serpeggia tra i leader: riguarda il fatto che i nazionalismi, l’euroscetticismo e i populismi, spesso alimentati dagli stessi politici, possano prima o poi crescere a tal punto da spodestare gli attuali big di Germania o Francia, Spagna o Italia, Paesi Bassi o Polonia, Svezia, Slovacchia o Grecia.
Stati inadempienti. E così si torna a Matteo Renzi. “Non vengo qui per dire sempre sì”, ha dichiarato lasciando il palazzo Justus Lipsius, sede del Consiglio europeo. Sulla risposta alle migrazioni il presidente del Consiglio attende ancora al varco gli immobili Paesi del centro Europa (Germania esclusa, che sta facendo ampiamente la sua parte), dell’Est e del Nord (con la positiva eccezione della Svezia). E dato che l’Italia affronta pressoché in solitudine un afflusso di centinaia di migliaia di disperati in fuga dall’Africa e dall’Asia, Renzi insiste nel chiedere una vera solidarietà europea. Puntualizza: “Non chiediamo nuova flessibilità sui conti”, spiega, e “quindi la manovra finanziaria non cambia”. Respinge eventuali richiami da Bruxelles sui conti pubblici e semmai rilancia ciò va sostenendo da giorni: “Ci aspettiamo una procedura di infrazione. Ma non nei nostri confronti, bensì verso quei Paesi che non fanno la loro parte” per l’accoglienza dei rifugiati. E l’elenco degli Stati-fortezza, inadempienti verso le regole europee è davvero lungo.
“Noi europeisti…”. Dal summit brussellese Renzi non trascura d’inviare altri messaggi. Il primo verso gli Stati Uniti, dal quale è appena tornato, solo per dire ancora una volta dell’amicizia e della sintonia “anti austerity” e pro-crescita che lega Roma con Washington. Il secondo indirizzato a Berlino.
“Con la Germania c’è un ottima relazione” eppure “su tante cose non andiamo d’accordo”.
Il premier italiano rivendica un’autonomia di manovra politica in sede Ue dovuta al fatto che l’Italia “è un grande Paese”, la seconda “manifattura in Europa” e il terzo “contributore netto”, in credito rispetto al bilancio comunitario (“ogni anno versiamo 20 miliardi all’Ue e ne riportiamo a casa 12”). Ne deriva, a suo dire, che una “Italia a testa alta” e con spirito propositivo “fa bene anche all’Unione europea”. Ultimo messaggio: in vista del 70° dei Trattati saranno organizzate a Roma il prossimo marzo grandi iniziative “nelle quali coinvolgere non i soliti nomi e burocrati ma università, giovani, associazioni, cittadini”. “Noi europeisti – dice soddisfatto – vogliamo una discussione piena e aperta sul futuro dell’Europa”.