Nei giorni scorsi sono state pubblicate due ricerche dalla cui analisi emergono alcuni spunti interessanti. Da un lato, l’Istat ha certificato per il primo semestre del 2016 una triplicata riduzione delle nascite rispetto all’anno precedente. Dall’altro, i risultati della ricerca “Teen’s voice: miti e valori dei giovani tra scuola, società e lavoro”, realizzata dall’Università La Sapienza di Roma e Campus Orienta/Il Salone dello Studente su oltre 2.000 studenti degli ultimi due anni delle superiori, segnalano una rinnovata attenzione da parte delle giovani generazioni verso le tematiche valoriali e la famiglia, intesa sia come ambito nel quale costruire relazioni positive, sia come primaria fonte di ispirazione per la propria esistenza.
Pur con tutte le approssimazioni e le cautele del caso, se queste tendenze dovessero essere confermate, saremmo di fronte ad
una frattura generazione indicativa di un’inversione di tendenza verso la riscoperta del significato profondo della famiglia e, di conseguenza, della maternità.
Quasi un decennio di crisi economica ha prodotto un doloroso ridimensionamento delle speranze di un’intera generazione. Quella degli odierni trenta-quarantenni, cresciuti con i miti degli anni Ottanta, la Tv commerciale, le icone cinematografiche alla Gordon Gekko e con la pretesa di relegare in soffitta quanto afferente alla dimensione più spirituale dell’esistenza per far spazio ad un’esasperata logica del consumo e del possesso.
Un trionfo dell’individualismo, del relativismo e del materialismo che speculazioni finanziarie, incertezze e flessibilità hanno decisamente messo in discussione.
Questa generazione, oggi direttamente interessata dai temi della natalità, è però solo l’apice di una scala generazionale che ne aveva via via dimenticato il valore e finito per materializzarne anche il significato, secondo logiche individualistiche e di possesso incompatibili con il suo senso profondo. Il progressivo allontanamento dalla prospettiva del dono ha fatto sì che anche la scelta di mettere al mondo dei figli finisse per dipendere da valutazioni di tipo economico ben più esasperate di una genitorialità responsabile, spingendosi talvolta fino ad una sua pericolosa riduzione entro le logiche consumistiche.
Come è stato rilevato già in altre occasioni, la questione è seria e non rinviabile poiché
l’andamento demografico del Paese sta creando un circolo vizioso e involutivo.
Ormai da diversi decenni è in atto una crescita incontrollata della spesa pubblica cui corrispondono due opposte tendenze: l’incremento della fiscalità e la riduzione dei livelli di protezione dei diritti sociali. Entrambe, a loro volta, spegnendo le speranze di quelle generazioni in età ancora fertile, spingono queste ultime verso la rinuncia all’esperienza del diventare genitori non più tanto per ragioni culturali, come avvenuto in passato, ma per ragioni socio-economiche che difficilmente possono essere ignorate. Ne è prova, banalmente, l’analisi dei commenti pubblicati sul web dai lettori di Repubblica all’articolo “Culle vuote il tracollo delle nascite: in sei mesi 14mila in meno”.
In questo senso, l’incapacità del nostro sistema economico di riprendere la strada della crescita costituisce una grave ipoteca sul nostro equilibrio demografico. Sul fronte socio-culturale, invece, pur nella sua tragicità, la crisi sembra averci aperto gli occhi. Se le giovani generazioni ricominciano a guardare alla famiglia e alla costruzione di relazioni positive con l’ambiente e le persone con cui vivono quale indicatore di qualità della vita, si tratta di un buon segno.
Un segnale positivo che, affinché non vada disperso, deve essere incoraggiato e sostenuto dalle istituzioni con politiche formative e di welfare pensate per i giovani e le famiglie.
Del resto, che esistano coppie, che spesso rinunciano ad avere dei figli per ragioni economiche o rimandano tale scelta in attesa di una stabilità che è spesso un miraggio, è ormai innegabile. Non si tratta, come spesso accade quando si decide di affrontare il tema, di suggerire interventi estemporanei, necessariamente limitati dal punto di vista delle risorse disponibili, che vadano ad aggiungersi al nostro già insostenibile sistema di welfare. Esso, infatti, stratificandosi negli anni e privo di una visione organica, rappresenta ormai una zavorra per le nostre prospettive di crescita.
Occorre, piuttosto, un suo complessivo ripensamento in un’ottica inclusiva, capace di mettere le famiglie e i giovani al centro, anziché ai margini, della nostra cornice istituzionale. Tali politiche potrebbero stravolgere equilibri politici che in questa fase si pretenderebbe invece di consolidare, ma le future generazioni certamente ne beneficerebbero. È un sacrificio che la classe dirigente ha il dovere di fare, senza più rinvii.