Che cosa spinge sette fratelli e la loro madre a lasciarsi torturare e infine uccidere da chi vorrebbe che rinnegassero la propria fede? Cosa li porta a sopportare dolori estremi e la morte «piuttosto che trasgredire le leggi dei padri»?
«E’ preferibile morire per mano degli uomini – dice uno dei fratelli – quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati».
Di che speranza si tratta? E’ una forma di ottimismo ottuso e cieco? E’ credere ad una “provvidenza” per la quale, prima o poi, tutto è destinato ad andare per il verso giusto?
La speranza, di cui si parla nella prima lettura, è ciò che ha consentito e tuttora consente a questi uomini e a questa donna di affrontare, il mestiere di vivere, di camminare in posizione “eretta” sulla strada della vita.
«Dal cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».
Sette uomini e una donna pienamente diritti, pienamente integri, saldi e “in piedi” nonostante siano fisicamente curvati e provati da tanta sofferenza.
Qual è la loro speranza? La certezza di un Dio che non è il totalmente altro e lontano da loro, la consapevolezza di una relazione con questo Dio vissuta e sperimentata già da tutto il popolo di Israele nel corso della sua intera storia, di tutto il suo camminare passato e presente, quella relazione che costituisce il fondamento del suo credere.
Come dice il salmista, «Io ti invoco poiché tu mi rispondi […]. Io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine». Questi uomini e questa donna scelgono di vivere per Dio, per questa relazione tra Dio e ciascuno di loro, disposti a rinunciare al proprio corpo fisico per vivere una dimensione che è altra, per una «vita nuova ed eterna», in vista di «una resurrezione per la vita».
E noi? Cosa ci fa stare in piedi, cosa non ci fa abbandonare alla disperazione, alla morte? Quale la nostra speranza?
«…lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza».
Sì! La nostra speranza è Gesù Cristo, morto e risorto, primogenito, e non il solo, e non l’ultimo, di coloro che resuscitano dai morti.
Come i fratelli protagonisti della prima lettura, vogliamo portare a tutti, nel vaso di creta povero e fragile che noi siamo, il grande tesoro della nostra speranza: la vita è più forte della morte, l’amore è più forte dell’odio, la fedeltà di Dio, come scrive San Paolo, è più forte dell’infedeltà dell’uomo!
Leggiamo nel Vangelo: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe». Non è un concetto astratto, né tantomeno un Dio di cadaveri. Abramo, Isacco e Giacobbe fanno parte del nome di Dio, stanno nella memoria di Dio. «Dio non è dei morti, ma dei viventi», e chi fa parte del nome di Dio è vivo.
Questo ci dice oggi il Signore: tu sei iscritto nel nome di Dio, tu vivi in Dio di una vita vera, vivi della fonte vera della vita!