Sono passati oltre 33 anni da quel 6 marzo 1983. Piazza di Managua, capitale del Nicaragua. Da una parte Papa Giovanni Paolo II, visibilmente alterato costretto ad alzare la voce per farsi sentire (e ci riuscì benissimo, levando al cielo il pastorale) poiché gli era stata tolta l’amplificazione, nel bel mezzo della celebrazione della messa, di fronte a quella che si stava rivelando la più plateale contestazione mai messa in scena nei confronti di un Papa. Dall’altra parte c’era l’organizzatore della contestazione, l’allora trentottenne Daniel José Ortega, presidente della Repubblica dopo essere stato uno dei leader della rivoluzione sandinista, di ispirazione marxista e castrista, che quattro anni prima aveva deposto il dittatore Anastasio Somoza. Gli animi erano tesi anche perché la rivoluzione sandinista si era rivelata terreno fertile per la Teologia della liberazione; del Governo di Ortega facevano parte diversi sacerdoti, per questo apertamente rimproverati dal Papa.
Ortega perpetua il suo potere. Ebbene, 33 anni dopo Daniel Ortega, oggi settantunenne, è ancora lì: presidente della Repubblica in carica e pronto a farsi rieleggere per l’ennesima volta nelle elezioni presidenziali di domenica prossima, 6 novembre, per il Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln). Ortega, rimasto per un primo tempo al potere fino al 1990, quando fu sconfitto alle elezioni, è tornato al vertice nel 2006, è stato confermato nel 2011 ed ha cambiato la Costituzione per potersi ripresentare “all’infinito”. Nell’ultimo decennio ha cercato di tenere un approccio più “morbido” rispetto ai primordi, riuscendo a mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale. L’economia, una delle più fragili del continente, ha fatto qualche timido progresso, ma un terzo della popolazione continua a vivere sotto la soglia della povertà. E la perpetuazione del potere pare aver ormai sepolto qualsiasi velleità di cambiamento. Da tempo anche la frangia cattolica rimasta vicina alla stagione della Teologia della liberazione ha preso le distanze dal presidente e quella della Chiesa pare essere oggi l’unica voce libera e alternativa nella società.
Votare o no ? Secondo il giudizio dei più, le elezioni di domenica prossima (tre milioni e 400mila elettori sono chiamati anche ad eleggere i 90 deputati) potrebbero anche non essere tenute. Si tratta di un formale esercizio di democrazia, ma nella sostanza Ortega è già sicuro di vincere. Nei mesi scorsi sono stati esclusi dalla contesa gli unici nomi in grado di coagulare un consenso alternativo, in particolare il leader liberale Eduardo Montealegre (la decisione del Tribunale supremo ha provocato una successiva spaccatura dei liberali e i parlamentari fedeli a Montelegre sono stati dichiarati decaduti), mentre nelle ultime settimane una decisione della Corte Suprema ha tolto di mezzo anche Luis Callejas, candidato per la Coalición nacional por la democracia (Cnd). Oltre a Ortega restano in lizza 5 deboli candidati: Maximino Rodríguez (Partido liberal constitucionalista), Pedro Reyes Vallejos (Partido liberal), Carlos Canales (Alianza por la República), Erick Cabezas (Partido conservador) Saturnino Cerrato Hodgson (Alianza liberal nicaragüense). Non solo: Ortega ha pensato bene di candidare alla vicepresidenza sua moglie Rosario Murillo. E fino a poche settimane fa il presidente ha negato la presenza di osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea).
Di fronte a tale scenario non sono pochi, tra gli oppositori, coloro che hanno invitato a non recarsi alle urne per non legittimare quella che viene ritenuta una farsa. Anche dalla Chiesa tale possibilità di scelta non viene esclusa: “Per chiarire: noi vescovi del Nicaragua non abbiamo invitato a votare in coscienza, ma a decidere in coscienza di votare o no”, si è espresso via Twitter monsignorJosé Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua.
La spada di Damocle del “Nica Act”. Gli unici momenti di vivacità della campagna elettorale sono venuti dalle ripetute prese di posizione dell’Episcopato e dagli Stati Uniti, sempre attenti a quanto accade nell’America Centrale. Se negli anni Ottanta Washington non esitò a finanziare la controguerriglia dei Contras, stavolta la “minaccia” ha i contorni di un provvedimento legislativo approvato dalla Camera dei rappresentanti, chiamato “Nica act”, attraverso il quale si escludono per il futuro appoggi americani ad ulteriori finanziamenti internazionali al Governo di Managua. Forse anche per questo Ortega ha mostrato negli ultimi giorni segni di dialogo, consentendo agli osservatori dell’Oea di visitare il Paese nei giorni del voto.
Appelli della Chiesa per i pluralismo. Come accennato, l’Episcopato ha seguito con attenzione l’evolversi della campagna elettorale. “Qualsiasi tentativo di creare le condizioni per l’attuazione di un regime a partito unico in cui scompaiano la pluralità ideologica e i partiti politici è dannoso per il Paese”, si leggeva in una nota della Conferenza episcopale (Cen) rilasciata nel giugno scorso. A fine settembre l’arcivescovo di Managuae e presidente della Cen, cardinale Leopoldo Brenes, aveva così commentato il “Nica Act”: “Non c’è dubbio che questa iniziativa avrà un impatto a livello economico, sia per i privati che per la popolazione povera. Molti programmi realizzati nel Paese attraverso gli aiuti saranno compromessi. Il nostro governo dovrebbe cercare un piano B perché è responsabile del progresso e dello sviluppo del popolo nicaraguense”. Ad inizio ottobre nelle parrocchie, su invito della Conferenza episcopale, si è svolta una giornata di preghiera e digiuno per il futuro del Nicaragua.