Giovedì scorso l’Alta Corte di Londra ha accolto un ricorso presentato da alcuni cittadini contro la decisione del governo inglese guidato da Theresa May di dare inizio ai negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea senza passare prima da un voto parlamentare, semplicemente facendo seguito al risultato dell’ormai famoso referendum dello scorso giugno. Il fronte pro-Brexit ha subito attaccato i giudici come “nemici del popolo” e il governo ha dichiarato che farà ricorso alla Corte Suprema. Può sembrare una questione tutta procedurale da esperti di diritto pubblico inglese, ma in realtà questa vicenda offe spunti per una riflessione ben più ampia. Procedendo per ordine, bisogna ricordare che il referendum era consultivo e dunque il governo inglese decidendo di iniziare i negoziati senza voto parlamentare aveva in realtà deciso di uscire dall’Ue senza un’espressione legalmente vincolante della volontà popolare.
Se la classe politica inglese, e soprattutto il Partito Conservatore, che ha in mano il governo, avesse voluto affrontare la situazione seriamente, avrebbe indetto nuove elezioni dopo le dimissioni di Cameron, per far prendere una decisione così importante a un parlamento nuovo, legittimato a esprimersi su questo tema da una campagna elettorale centrata sul futuro europeo del Paese.
Giova ricordare che il referendum fu vinto dal fronte pro-Brexit con il 52% dei voti, con scene paradossali come interviste a cittadini che dopo aver votato per uscire dall’Ue ammettevano candidamente di non sapere esattamente quali fossero le conseguenze del voto, mentre altri che dichiaravano di aver commesso un errore a votare Brexit.
Theresa May ha deciso però di non convocare nuove elezioni, di tenersi stretta la solida maggioranza parlamentare ottenuta dallo spregiudicato David Cameron flirtando proprio con il populismo pro-Brexit e di evitare pure il voto parlamentare. Il motivo di questa seconda scelta è semplice. Durante la campagna referendaria, la larga maggioranza dei parlamentari si era schierata per restare nell’Unione Europea. Se adesso votassero per uscirne, ammetterebbero implicitamente di aver mentito qualche mese fa, ma se votassero per restare nell’Ue sarebbero accusati di andare contro la volontà popolare e probabilmente (soprattutto se Conservatori) perderebbero il proprio seggio nelle prossime elezioni.
Alzando un po’ lo sguardo dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza politica, non si può non notare come il Regno Unito stia perdendo la propria identità.
Il voto per l’uscita dall’Ue non è un brutto segnale solo perché l’Europa sarà forse più debole o perché l’economia inglese probabilmente perderà qualche punto di Pil. Il problema maggiore è che il Regno Unito sta diventando una società più chiusa, andando contro la cultura liberale che l’ha fatto grande. Nel Paese che ha dato il via al moderno parlamentarismo costituzionale come garanzia contro l’arbitrio del sovrano, il fatto che il parlamento si esprima su un tema così importante per il futuro del Paese è vissuto come un’inutile perdita di tempo, quasi come un’ingerenza nel rapporto fra cittadini e governo.
Una volta il Premier inglese era forte in virtù della sua forza parlamentare. Oggi, in Inghilterra come in altri Paesi europei, si vive con insofferenza la necessità di dover fondare la forza dell’esecutivo su una solida maggioranza parlamentare. Il parlamento è visto come il luogo delle perdite di tempo, si è tentati di prescinderne.
L’efficacia del governo e la velocità decisionale prendono il sopravvento su quasi ogni altra considerazione. Le società occidentali stanno cercando le risposte ai problemi globali che le assediano nel plebiscitarismo e nella ricerca di un fantomatico rapporto diretto con il leader politico che la storia ha dimostrato, dolorosamente, essere solo un’illusione. Si rincorre l’efficienza, il decisionismo, si rifugge dalle mediazioni, dai luoghi di dialogo, dai tempi e dagli spazi del pensiero. Tutto ciò che sta fra il singolo cittadino e il responsabile del potere esecutivo è inutile perdita di tempo. Le aggregazioni sociali e le istituzioni che occupano quello spazio possono andare bene al massimo per fare volontariato e beneficenza, ma non per creare e organizzare pensiero politico e sociale. Le nostre società sono complesse, la democrazia è un affare complesso e pensare di governare sostituendo twitter ai luoghi di riflessione e dialogo non ci condurrà da nessuna parte.