La gioia, i canti e le danze per festeggiare l’inizio dell’offensiva irachena per liberare Mosul, l’antica Ninive, e i villaggi della Piana, non ci hanno messo molto tempo a svanire. Per i cristiani riparati ad Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, dopo l’arrivo nel 2014 dei miliziani dello Stato Islamico, non è ancora tempo di fare ritorno alle loro abitazioni e villaggi. La minaccia dell’Isis oggi appare più lontana ma non è sufficiente per farli stare più tranquilli e fiduciosi. Sono ancora tanti e gravi i problemi che adesso si trovano ad affrontare, come testimonia il sacerdote siro-cattolico della diocesi di Mosul, padre George Jahola.
Rientro difficile. Da Erbil racconta delle speranze, per adesso deluse, dei suoi fedeli di tornare: “è difficile pensare a un rientro veloce dei cristiani nei loro villaggi. Nella sola cittadina cristiana di Qaraqosh, a nord di Mosul, la più grande della Piana di Ninive – fino al giugno 2014 ci vivevano oltre 60mila persone – il 90% delle abitazioni è distrutto o bruciato”. Padre Jahola parla con cognizione di causa. Su mandato di monsignor Petros Mouché, arcivescovo siro-cattolico di Mosul, di Kirkuk e di tutto il Kurdistan, sta redigendo una specie di inventario di case, luoghi di culto, chiese e cimiteri cristiani distrutti da Daesh in questi due anni di occupazione. “Stiamo lavorando con alcuni giovani volontari a questo elenco. Ad oggi possiamo dire che oltre 6000 abitazioni sono da demolire e da rifare da capo. Ci aspettavamo di trovarci davanti a case spogliate, derubate ma non bruciate e distrutte”. Una situazione che fa dire al sacerdote siro-cattolico che
“quello messo in atto dallo Stato Islamico è un vero genocidio, davanti al quale la comunità internazionale non può restare silente.
Chiediamo al mondo di lottare per i nostri diritti e di riconoscere il genocidio. Non si può cancellare dall’Iraq la storica presenza delle minoranze”. Il rischio adesso che le minoranze del Paese, dopo essere state massacrate da Daesh, vengano colpite dal cosiddetto ‘fuoco amico’, ovvero le stesse Istituzioni irachene. Alle tensioni settarie, che stanno avendo un peso anche nell’offensiva su Mosul, si aggiungono alcune leggi approvate recentemente dal Parlamento che impongono divieti nel commercio di alcolici, nella pubblicazione di articoli e anche nel modo di abbigliarsi nelle università. Chiaro sintomo del restringimento delle libertà personali che non va nella direzione della difesa delle minoranze del Paese.
“Non basta sconfiggere lo Stato Islamico sul campo – avverte don Jahola – serve fronteggiare anche la sua mentalità ancora diffusa in molte persone, in tanti abitanti di Mosul, che lo hanno sostenuto e con i quali adesso si dovrà in un modo o nell’altro dialogare per evitare vendette crudeli”.
Trovare lo spazio per le minoranze non musulmane deve diventare una priorità assoluta dell’Iraq del futuro, è la speranza del siro-cattolico.
Intanto i cristiani restano a Erbil e fanno la conta dei danni.“Abbiamo bisogno di ricostruire le nostre chiese e i nostri villaggi” dicono da Erbil. Le testimonianze che arrivano da Qaraqosh parlano di una città disabitata e pericolosa. Nella ritirata Daesh ha disseminato mine e cecchini e nel dedalo dei tunnel scavati in questi due anni potrebbero annidarsi kamikaze pronti a colpire. “Mettere in sicurezza la città è fondamentale – sottolinea don Jahola – poi penseremo a ricostruire le infrastrutture e ridare così fiato alla comunità cristiana locale stremata”. Una sofferenza doppia quella dei cristiani della Piana di Ninive: spogliati dei loro averi, privati di tutto e cacciati dalle loro case, tra giugno e agosto del 2014, hanno dovuto sopportare l’onta di vedere le loro chiese profanate, distrutte, trasformate in poligoni di tiro e in luoghi di addestramento militare. La cattedrale dell’Immacolata Concezione, le chiese di Mar Yuhanna e di Mar Zena sono state incendiate.
In Iraq anche le chiese in muratura sono martiri. Significativa, allora, la celebrazione presieduta il 30 ottobre da monsignor Petros Mouché nella cattedrale dell’Immacolata Concezione a Qaraqosh. “Un gesto di riparazione – spiega il sacerdote siro-cattolico – per la profanazione subita dal luogo sacro, la prima messa dalla caduta della città e dalla fuga dei suoi abitanti. La liturgia si è svolta tra le pareti annerite dal fumo, tra le macerie del tetto crollato parzialmente, tra resti di banchi usati come legna da ardere e sigle dell’Isis”. Gli inni cantati in aramaico, la lingua di Gesù, sono tornati a risuonare nelle navate della cattedrale nel tentativo di cancellare l’odio che tante vittime ha fatto in questi due anni. L’auspicio di padre Jahola è che dopo tanta sofferenza per i cristiani iracheni si aprano le porte di una vera cittadinanza, di stabilità e di sicurezza. Che al tempo dell’esclusione faccia seguito quell’dell’inclusione.
0 commenti