Di Michele Luppi
Di fronte ai 4.220 morti nel Mediterraneo nel 2016 siamo chiamati non solo alla solidarietà nei confronti di chi arriva, ma anche a denunciare quei meccanismi che spingono le persone a partire. “Invece di fare i posti di blocco per fermare i migranti diretti nei centri di accoglienza bisognerebbe bloccare le strade per impedire che le bombe lascino gli stabilimenti, scendere nelle piazze ogni volta che un accordo economico genera ingiustizia e povertà, ogni volta che la terra di un paese viene svenduta a una multinazionale per produrre carburanti invece che cibo”. Parla lentamente e senza alzare mai il tono della voce don Mussie Zerai, ma le sue parole pesano come macigni. La gente lo ascolta senza fiatare, rapita dai racconti di questo sacerdote scalabriniano, cappellano della comunità eritrea svizzera (circa 34mila persone) da anni impegnato nel prestare soccorso ai migranti diretti verso l’Europa. Un impegno, portato avanti anche grazie all’associazione Habeshia, da lui fondata, che gli è valso nel 2015 la candidatura al Premio nobel per la pace.
Grazie a chi mostra il volto umano della società. Nei giorni scorsi ha fatto visita alla città di Como, uno dei punti caldi nella crisi migratoria che attraversa il nostro Paese. Il flusso verso la Svizzera prosegue al ritmo di 800 tentativi di passaggio alla settimana, ma sono pochi quelli che riescono a passare. Le riammissioni alla dogana verso l’Italia sono state 571 solo nell’ultima settimana. Molte di queste persone finiscono al campo per i migranti in transito gestito dalla Croce Rossa. Ed è proprio questo uno dei luoghi in cui don Zerai si è recato.
“Voglio prima di tutto dire grazie alle tante persone che durante questi mesi si sono rimboccate le maniche per prestare assistenza alle persone in transito”, ha dichiarato ai cittadini comaschi riuniti per ascoltarlo.
“Sento di dovervi ringraziare per aver mostrato il volto umano della nostra società e per farlo ci vuole coraggio perché, sempre più spesso, ci sono muri visibili e invisibili che si alzano e finiscono per far sentire queste persone estranee, persone di serie b. Dovremmo invece chiederci: noi potremmo vivere in quelle condizioni?”.
Non basta gestire l’emergenza. Uomini e donne di cui don Zerai ha raccolto le storie a partire dal 1995 quando, tre anni dopo il suo arrivo a Roma come richiedente asilo, decise di mettersi al servizio di chi inseguiva il suo stesso sogno. Ma è nel 2003 che la sua vita cambia: per la prima volta riceve una telefonata da un’imbarcazione alla deriva nel Mediterraneo. Sarà la prima di una lunga serie di telefonate da persone bloccate lungo le rotte verso l’Europa: nelle carceri libiche, nella penisola del Sinai, in mezzo al mare. Una tragedia che continua. Secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono 4.220 i morti e dispersi nel mare dall’inizio del 2016, oltre 16mila dal 2010.
“È un dramma che si aggiunge al dramma – continua il sacerdote -, ma di fronte a tutto questo si preferisce continuare a gestire l’emergenza, invece che affrontare le cause delle migrazioni. Si ragiona sempre e solo in termini di ordine pubblico e sicurezza, invece di parlare di diritti ed economia”.
Iniziare dalla solidarietà. Perché, questa la riflessione di don Zerai, non si può guardare a quanto sta avvenendo alle porte dell’Europa senza pensare a ciò che spinge queste persone a mettersi in viaggio rischiando la vita: guerre, disastri ambientali e ingiustizie economiche. “Purtroppo – sottolinea – dobbiamo renderci conto che l’Europa, così come le altre potenze mondiali, non è per nulla estranea alle dinamiche che portano queste persone a lasciare le proprie case. Perché non ci chiediamo chi sostiene la dittatura in Eritrea o chi permette a multinazionali di affittare centinaia di chilometri quadrati di terre nei Paesi poveri per produrre biomasse per fare energia invece che cibo? Dove eravamo quando l’Europa firmava accordi economici come gli Epa (tra Ue e Stati africani) che alimentano lo squilibrio commerciale tra Paesi ricchi e poveri? In fondo finiamo sempre a parlare di una competizione per le risorse e di un sistema economico che è necessario per mantenere i nostri stili di vita”. Da qui un appello che il sacerdote ha lasciato ad adulti e giovani:
“L’unico modo per provare a cambiare le cose – ha concluso Zerai – è iniziare dalla solidarietà, essere solidali con quanti arrivano e scendere in piazza per i diritti di tutti, non solo per i nostri”.