informazione“Il lettore di informazioni di oggi pretende di avere diritto di parola, che sia con un ‘like’, con un commento o con una foto, grazie alla possibilità inedita di condivisione offerta dai social e dalla Rete. Senza porre il giornalista sullo stesso piano del fruitore dobbiamo riconoscere il diritto di parola e riconoscere cosa questo significhi per noi e per il nostro ruolo. In parte, la capacità di portare avanti questo lavoro sta nel tenere questo legame, aiutando le persone a collocare la notizia in un significato, in un quadro più ampio”. Così il sottosegretario e direttore dell’Ufficio nazionale delle comunicazioni sociali della Cei, don Ivan Maffeis, nel suo intervento a Glocalnews, il festival del giornalismo digitale che guarda il mondo da una prospettiva locale organizzato da Varesenews nella città lombarda dal 17 al 20 novembre.
“Come ci ricorda Papa Francesco – continua Maffeis – con la sua capacità di parlare alle folle, c’è bisogno di un’informazione di prossimità, fatta da gente competente e buona. C’è bisogno di radicamento sul territorio, di capacità di rivolgerci alla gente che abita i territori, di notizie che aiutino a riconoscersi come comunità nella vita quotidiana, nella realtà che la gente vive, ascoltando la mente e il cuore ma cercando di non assecondare la pancia. Occorre una comunicazione che chiama alla relazione, per cui è grazie al fatto che ti riconosco che tu diventi credibile”.
La sfida che i cambiamenti tecnologici pongono a giornalisti e redazioni è di tipo culturale, secondo don Ivan, perché “siamo raggiunti da un’informazione gratuita che non passa attraverso il filtro di un giornalismo professionale, che segue la deontologia”. Per questo occorre “tenere a mente la lezione di Papa Francesco, che in uno dei primi incontri con i gesuiti, all’indomani della sua elezione, ha raccomandato tre cose: il discernimento, cioè il metterci la testa e scegliere in questo mare di informazione; il dialogo; la frontiera”. Imparare ad abitare la frontiera, dichiara Maffeis, significa combattere l’autoreferenzialità, il parlarsi addosso, il chiudersi, “nella Chiesa come nella professione giornalistica. Non possiamo accontentarci di tirare avanti. La via per la Chiesa e per la professione giornalistica passa dall’aprirsi, dall’essere estroversi, dal fare spazio – evidenzia il sottosegretario e direttore – e imparare la lingua degli altri ed incontrarli come dice il Papa. Vivere la frontiera significa abitare ed inserirsi in questo tempo. Non sottrarsi a questa sfida ma cercare di essere il perno del cambiamento. Il che può significare, in positivo, riposizionarsi”.

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