di Rino Farda
Siamo sempre più affamati di informazioni. Il percorso evolutivo dell’umanità sta facendo registrare un salto inaspettato. Dopo aver vissuto per millenni sotto la guida di istinti e di ideali dettati in gran parte dalla fame di cibo e di soddisfazioni corporali (essere ben nutriti, al sicuro, al caldo o al fresco e riposati), adesso l’appetito degli esseri umani è diventato più immateriale. L’uso compulsivo dei cosiddetti telefoni intelligenti ha cambiato la lista delle nostre priorità. Le informazioni sono balzate al primo posto nelle esigenze di “nutrimento”, soprattutto per la generazione dei “millennials”.
L’apprendimento in questo contesto è diventato una sfida completamente inedita e da reinventare, a partire dalle fondamenta, per insegnanti e per discenti. Ne parla, in modo approfondito, un nuovo libro uscito negli Usa e che sta facendo molto discutere gli esperti di età evolutiva e di pedagogia. Si tratta di “The Distracted Mind: Ancient Brains in a High Tech World”, esplora le implicazioni comportamentali e anche scientifiche di questa “evoluzione” (che per alcuni è in realtà una devoluzione). E’ stato scritto da Adam Gazzaley, neurologo e professore alla University of California e dallo psicologo e ricercatore Larry D. Rosen. Una delle conseguenze principali, ha spiegato Gazzaley, riguarda la capacità di discernere e gestire gli “obiettivi di alto livello”. Nel multitasking, secondo gli autori del libro, “si soffre un degrado di prestazioni che può avere un impatto in ogni aspetto della nostra conoscenza: dalla sfera emotiva a quella decisionale fino al processo di apprendimento”. Fuori dalla metafora, il multitasking rischia di essere controproducente in molte attività del mondo reale, come la scuola, il lavoro e la sicurezza sulla strada. Ma è soprattutto l’interazione con il prossimo a risentirne maggiormente.
Non tutti sono d’accordo, ovviamente. Secondo alcuni ricercatori, il multitasking, e cioè la capacità di svolgere più compiti contemporaneamente, è un’attitudine positiva per l’apprendimento. Il problema, si legge nel libro, sta però nelle interferenze. L’overload di informazioni ci costringe a scegliere continuamente l’input sul quale concentrare la nostra attenzione per scegliere l’informazione da memorizzare nella “memoria di lavoro”. Il flusso costante di stimoli, non sempre rilevanti, che proviene dallo schermo luminoso dello smartphone finisce per costruire un vero e proprio muro di interferenze limitando in questo modo memoria e capacità di attenzione. Secondo Gazzaley, inoltre, l’inedito appetito di informazioni e l’attitudine a distrarsi continuamente con i messaggi dal telefono, potrebbero essere fra le cause più perniciose dell’aumento esponenziale delle sintomatologie legate alla sindrome dell’ansia e del panico, soprattutto fra gli adolescenti. Gli esperimenti e gli studi compiuti da Gazzaley e da Rosen non lasciano adito a dubbi.
Il fenomeno è ormai entrato a far parte dell’evoluzione dell’umanità e dobbiamo imparare in fretta a farci i conti, nelle scuole come nelle relazioni interpersonali. I due studiosi consigliano di adottare tecniche di meditazione e di concentrazione su obiettivi isolati. Spegnere i telefoni, focalizzare l’attenzione su uno scopo di alto livello, limitare le interferenze: sono obiettivi che paradossalmente è più facile raggiungere in una scuola o in una università. Il terreno primo e ultimo della deregulation è, neanche a dirlo, l’ambiente domestico. Anche i genitori più apprensivi per i livelli di attenzione dei figli non rinunciano a rispondere al telefono quando invece il loro tempo dovrebbe essere dedicato completamente alle relazioni famigliari.