X

“Misericordia et Misera”: Papa Francesco spinge il piede sulla soglia dei cuori perché la porta non si chiuda

Massimo Naro

Radicamento biblico, contestualizzazione liturgica, argomentazione teologica e, soprattutto, concretezza esperienziale: sono i registri che risuonano armonicamente nella lettera apostolica Misericordia et misera, che papa Francesco ha consegnato alla Chiesa nel giorno della chiusura dello straordinario Giubileo celebrato quest’anno in tutto il mondo.
Basterebbe commentare il titolo, per dimostrare la resa sinfonica dell’intreccio di tutti questi registri: tratto dal commento di sant’Agostino all’episodio evangelico dell’adultera perdonata da Gesù (cf. Gv 8,1-11), questo titolo riesce a prolungare sino a noi l’eco della lieta notizia filtrandola attraverso la tradizione patristica, conferendo però a ciò che per sant’Agostino era la polarità miseria/misericordia un profilo più personale, interrelazionale, perciò meno astratto, che ha la capacità di evocare la figura della misera donna accolta e salvata dal Maestro misericorde.

Miseria e misericordia, in ogni caso, sono prese in considerazione nel loro reciproco intrecciarsi.

Esse sono difatti accomunate già a livello etimologico, dato che la prima, la miseria, viene assimilata totalmente nella seconda, nella misericordia. E l’etimologia non fa altro che ratificare ed esprimere un coinvolgimento più radicale, che si traduce in attitudine esistenziale: come scriveva sant’Agostino nel suo Discorso 358/a, un vero e proprio trattato breve sulla misericordia, questa è da intendersi come la disponibilità a “caricarsi il cuore di un po’ di miseria altrui”. Spiegava il vescovo d’Ippona:

“La parola misericordia deriva il suo nome dal dolore per il misero. Tutt’e due le parole sono incluse in quel termine: miseria e cuore. Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia”.

Tra i sinonimi che lo stesso sant’Agostino in quel suo testo usava per dire “misericordia”, troviamo anche il termine commiseratio, vale a dire l’aver pietà per i miseri, o più precisamente l’esser misero assieme ai miseri, il farsi misero con gli altri miseri, il condividerne lo stato di estrema povertà (giacché questo significa “miseria”), la “mancanza di ciò che è fondamentalmente necessario per vivere, cui conseguono avvilimento spirituale, infelicità e senso di desolazione” (così, stavolta, nel Vocabolario Treccani). Sant’Agostino, contro gli epigoni dello stoicismo, si appellava alla misericordia considerandola la virtù che fa somigliare gli esseri umani a Dio: se alcuni filosofi si attardavano, ancora nel IV secolo d.C., a reputare la misericordia una passione che non si addice al saggio, perciò quasi un vizio che espone le decisioni al condizionamento emotivo o toglie lucidità alla conoscenza e serenità al discernimento, per sant’Agostino – invece – la misericordia dischiude gli orizzonti di un’altra sapienza, di una sapienza-altra, che rimanda a Dio e permette di conoscerlo nell’intimo della sua autentica identità, non come un impassibile antipatico, che nella sua fraintesa perfezione metafisica diffida appunto di ogni pathos e si mantiene nell’apatia più asettica, bensì come chi è capace di una compassionevole simpatia, di una salvifica sympátheia, di una divina disposizione a con-patire e, persino, a con-soffrire.

Il Dio della misericordia di cui parlava sant’Agostino è quello biblico, i cui benefici il profeta Isaia diceva di voler sempre ricordare (miserationum Domini recordabor: Is 63,7). Ed è il Dio che in Cristo Gesù manifesta una volta di più la sua tendenza a commuoversi, cioè a oltrepassare la propria trascendenza, come Adonai – il Signore – dichiarava a Mosè presso il roveto ardente (Es 3,8), per entrare nella condizione del servo umiliato, dell’uomo più misero (Fil 2,6ss).

La misericordia è, sotto questo profilo, ben più che un atteggiamento emotivo o una posa comportamentale: è, piuttosto, un motivo teologico peculiarmente “cristiano”.

Non nel senso che solo i cristiani sappiano apprezzare le ragioni della misericordia (lo stesso sant’Agostino citava Cicerone quale antico ammiratore della misericordia), o nel senso che solo i cristiani sappiano dimostrarsi misericordiosi, ma nel senso che

la misericordia dice chi è Dio

e, precisamente (benché tutte le grandi religioni intuiscano chiaramente che Dio è misericordioso), il Dio di Gesù Cristo, il Dio cioè che si capovolge nel suo contrario senza tuttavia smettere mai d’essere se stesso, esponendosi così alla morte pur essendo il Vivente (Fil 2,6-8), costituendosi peccato pur essendo il Santo dei santi (2 Cor 5,21), risuonando come maledizione pur essendo degno d’ogni lode e benedizione (Gal 3,13), in tutto ciò caricandosi del “servizio dello scambio”, diakonía tes katallagés, come scrive san Paolo in 2 Cor 5,18-19: il giovane Rabbi di Nazareth l’aveva annunciato raccontando parabole come quella del samaritano e quella del figliol prodigo.

Per la lettera apostolica la concretezza della vicenda di Gesù, misericordiae vultus, deve contagiarsi all’esistenza credente dei cristiani che hanno fruito della grazia del Giubileo, affinché – se pure si sono chiuse le Porte Sante a Roma e nelle altre Chiese sparse per il mondo – rimangano aperte le pieghe del cuore di ciascuno e di tutti. E, perciò, il Papa stesso spinge il piede sulla soglia dei cuori di coloro ai quali scrive, come si fa quando si tenta di impedire che la porta si chiuda bruscamente a causa di un’improvvisa folata di vento. Chi è stato “misericordiato”, scrive il Santo Padre, deve diventare a sua volta

“strumento di misericordia”.

Il piede di Francesco è, per esempio, la facoltà concessa da oggi in poi, a tutti i presbiteri, di assolvere il pur “grave peccato” dell’aborto. È, ancora, l’istituzione della Giornata mondiale dei poveri, stabilita da qui in avanti nella XXXIII Domenica del Tempo Ordinario. Ed è l’“incidenza” nel “sociale” che la misericordia deve una buona volta avere e mantenere, trasformandosi in quella che il Papa chiama la “cultura della misericordia”. La misericordia, cioè, deve tradursi in vissuto quotidiano, strappando i discepoli di Gesù all’“inerzia” e all’“indifferenza”, stimolandoli il più possibile alla “partecipazione” e alla “condivisione”. E deve diventare consapevole e convinta visione del mondo, non per limitarsi a essere una mera “teoria”, ma per maturare dentro la storia con la portata vasta e grande di una vera e propria civiltà della misericordia.

Redazione: