L’Oxford Dictionary, autorità indiscussa per la lingua inglese e la sua evoluzione, l’ha scelta come parola dell’anno: post-truth, letteralmente post-verità. Una decisione forse anche un po’ provocatoria, collegata com’è ai due grandi eventi politici mondiali degli ultimi mesi: l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. In entrambi i casi, infatti, tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere – dati internet alla mano – chela diffusione “virale” di notizie false, anche palesemente false, ma plausibili almeno per un pubblico privo di strumenti critici adeguati (come purtroppo sembra essere la maggioranza della popolazione non solo americana o britannica) ha condizionato in modo decisivo le opzioni degli elettori.Perché di questo si tratta quando si parla di post-verità. La parola italiana di uso corrente che più le si avvicina è bufala, termine che contiene una giusta dose di irrisione per l’assurdità di certe invenzioni, che pure trovano largo credito sul web, e che però non dà la misura della gravità del fenomeno. Con il potere della parole, del resto, bisogna andare cauti. Una studiosa molto autorevole come Patrizia Violi, che all’università di Bologna tiene la cattedra di semiotica che fu di Umberto Eco (con cui ha lungamente collaborato sul piano scientifico), sottolinea con preoccupazione
lo “spostamento semantico” per cui “si parla di post-verità e non più di menzogna”.
La presenza di quest’ultima nel discorso politico, peraltro, è vecchia come il mondo. “Il problema – spiega Violi – è che oggi la menzogna non viene più sanzionata e quando viene scoperta sembra che sia sufficiente chiedere scusa, anche quando la stessa menzogna è stata all’origine di eventi che hanno provocato decine di migliaia di morti”. Il riferimento esplicito è alle prove false costruite per giustificare la guerra in Iraq.
“Falsità dei contenuti, plausibilità, diffusione virale” sono i tre elementi che caratterizzano la post-verità secondo Paolo Peverini, docente di semiotica alla Luiss ed esperto dei linguaggi dei nuovi media. “È proprio la diffusione virale consentita da internet e dai social network a caratterizzare oggi il fenomeno rispetto al passato”, osserva Peverini, che tuttavia invita a cogliere la parzialità del parallelismo con la propagazione dei virus: “Nel caso della post-verità i falsi contenuti non si replicano in maniera indistinta, ma ci sono dei soggetti, singoli utenti o veri e propri siti, che agiscono in questo senso”. Il semiologo della Luiss avverte chepurtroppo i siti d’informazione, anche quando concorrono a svelare la falsità di certe notizie, finiscono in qualche modo per rincorrerle e rilanciarle, nella ricerca spasmodica del maggior numero di visualizzazioni e quindi di maggiori entrate economiche.Patrizia Violi individua poi nel massiccio prevalere della “comunicazione uno-tutti”, il “meccanismo strutturale” che alimenta il fenomeno, come insegna anche l’esperienza dei populismi. E aggiunge: “Mancano i luoghi in cui praticare un autentico confronto, in cui si sia tenuti ad argomentare con parametri razionali e non emotivi”.
Peverini, a sua volta, parla di “meccanismi di mimetismo”, per cui circolano notizie costruite ad arte con estrema raffinatezza. Ma in altri casi le bufale sono clamorosamente false e nonostante questo riescono a fare breccia nell’opinione pubblica. Com’è possibile questo? E perché tanti preferiscono fidarsi del “si dice” digitale o di fonti quantomeno dubbie invece che dei siti che fanno informazione professionale? Rimanendo nel caso delle elezioni americane, il più studiato (ma in casa nostra le dinamiche in atto sono le stesse), le venti storie false più rilevanti messe in circolazione sui due candidati, soprattutto su Hillary Clinton a onor di cronaca, hanno raccolto su Facebook un numero assai più grande di contatti di quelli ottenuti dai venti più autorevoli articoli dei principali siti d’informazione: 8.711.000 contro 7.367.000.
Il discorso ha implicazioni tali che porterebbero molto più in là dei limiti di un articolo, ma se vogliamo stare allo specifico del discorso sulla post-verità nei nuovi mediala chiave di lettura è il confirmation bias, il pregiudizio della conferma: la ricerca esclusiva di ciò che conferma un’idea di cui si è già convinti.Lo ha studiato in modo approfondito l’Imt Alti Studi di Lucca in relazione a un altro campo in cui il fenomeno della post-verità può produrre effetti molto gravi (basti pensare al caso dei vaccini), quello dell’informazione scientifica. Le conclusioni dell’analisi, che ha avuto una vasta risonanza internazionale, sono sconfortanti: “Fermare una notizia infondata diventa praticamente impossibile”, ha scritto il direttore del gruppo di ricerca, Walter Quattrociocchi. La stessa attività di debunking (lo svelamento di una notizia infondata) che vede impegnati molti operatori dell’informazione e anche alcuni siti specializzati, risulterebbe spesso inutile e talvolta perfino controproducente perché gli individui rifiutano di mettere in discussione i propri pregiudizi e, al limite, li radicalizzano ancor di più.
Che fare, allora? È certamente doveroso chiedere un ruolo più incisivo e rigoroso dei siti d’informazione e un più tempestivo controllo da parte dei gestori dei social network. Ma senza farsi troppe illusioni. Il problema va rovesciato. Alla fine, dice Peverini, “l’unica risposta realistica è la formazione delle persone”.
0 commenti