di Francesco Rossi
L’omicidio di Stato non è estinto. Anzi, sembra proliferare all’ombra del populismo. Se da una parte l’Onu nei giorni scorsi ha approvato – nella Terza commissione, quella che si occupa del rispetto dei diritti umani – una nuova risoluzione per invocare una moratoria universale delle esecuzioni (con un voto in più rispetto all’analoga risoluzione di due anni fa), dall’altra negli Stati Uniti si è registrato un nuovo consenso popolare verso la pena di morte proprio nel giorno che ha portato all’elezione di Donald Trump.
Gli americani, infatti, oltre a eleggere il loro presidente sono stati chiamati a votare complessivamente su oltre 150 provvedimenti. In Nebraska, nello specifico, gli elettori hanno ripristinato la pena capitale, abolita dal Parlamento il 26 maggio 2015. Qui non si praticano esecuzioni dal 1997, ma 10 persone sono tuttora detenute nel braccio della morte. In California, invece, si sono confrontate due “Propositions” opposte: una che prevedeva l’abolizione della pena di morte, mentre la seconda chiedeva una riduzione dei tempi tra condanna ed esecuzione. Bocciata la prima, è passata la seconda. Da segnalare che la California è lo Stato Usa con il maggior numero di detenuti nel braccio della morte (746). Infine in Oklahoma, dove il 9 aprile 2015 era stata introdotta la possibilità di usare l’azoto e il plotone d’esecuzione per uccidere i condannati qualora l’iniezione letale non fosse utilizzabile, gli abitanti hanno votato per dare protezione costituzionale alla pena capitale, respingendo la scelta del procuratore generale, che lo scorso anno aveva sospeso le esecuzioni.
Il responso delle urne in Nebraska, California e Oklahoma conferma come gli Stati Uniti continuino a difendere la pena di morte, faticando a cogliere i ripetuti appelli di papa Francesco, che al Giubileo dei carcerati (6 novembre) ha ribadito “l’importanza di riflettere sulla necessità di una giustizia penale che non sia esclusivamente punitiva, ma aperta alla speranza e alla prospettiva di reinserire il reo nella società”, rimarcando poi – il 20 novembre a Tv2000 – come non ci sia “una vera pena senza speranza”. “Se una pena non ha speranza – sostiene Bergoglio – non è cristiana, non è umana. Per questo la pena di morte non va”.
Mentre l’anno scorso, parlando a Washington davanti ai membri del Congresso, il Papa aveva chiesto esplicitamente “l’abolizione globale della pena di morte”, “dal momento che ogni vita è sacra”, facendo proprio l’appello in tal senso dei vescovi statunitensi e offrendo “sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione”.
Tuttavia, negli Usa solo 18 Stati hanno abolito la pena di morte, mentre 32 la mantengono (seppure tra questi Colorado, Kansas, New Hampshire, Oregon, Pennsylvania e Wyoming non abbiano eseguito condanne a morte negli ultimi 10 anni). Secondo l’annuale rapporto di Amnesty International, nel 2015 sono state compiute 28 esecuzioni (13 in Texas, 6 in Missouri, 5 in Georgia, 2 in Florida, 1 in Oklahoma e 1 in Virginia) ed emesse 52 sentenze capitali. A fine 2015, le persone nel braccio della morte erano 2.851.
Allargando lo sguardo, Amnesty denuncia come nel 2015 si sia registrato “un preoccupante incremento del 54% delle esecuzioni totali rispetto al 2014”, con almeno 1.634 persone messe a morte nel mondo (573 in più rispetto all’anno precedente), “il più alto numero di esecuzioni che Amnesty International ha registrato in oltre 25 anni”, senza contare la Cina, dove le informazioni sulla pena capitale sono segreto di Stato (ma si stima che si attestino sulle migliaia l’anno).
L’89% di tutte le esecuzioni è avvenuto in soli tre Stati: Arabia Saudita, Iran e Pakistan.
Sul fronte opposto – ovvero l’abolizione della pena capitale – Amnesty mostra ottimismo per la “tendenza complessiva”: se nel 1977 solo 16 Paesi l’avevano abrogata completamente, nel 2015 gli abolizionisti sono giunti a quota 102 (con Repubblica del Congo, Figi, Madagascar e Suriname), mentre “molti altri Paesi non eseguono condanne a morte da più di una decade, oppure hanno dato chiara indicazione che si stanno muovendo verso l’abolizione totale”. Pertanto, stima l’organizzazione umanitaria, “i Paesi che utilizzano la pena di morte stanno diventando una minoranza isolata”.
Saranno quindi in controtendenza, ma di sicuro fanno rumore le decisioni statunitensi, come pure i proclami lanciati negli ultimi mesi dai presidenti di Turchia e Filippine.
Reduce dal fallito golpe del 15 luglio 2016, la Turchia sta conoscendo una colossale “purga” per volontà del presidente Recep Tayyip Erdogan che, partita dai vertici militari, ha interessato i funzionari statali, i magistrati, i giornalisti, con forti limitazioni alla libertà, la proclamazione dello stato d’emergenza e la sospensione temporanea della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nel quadro di una democrazia fortemente compromessa – per usare un eufemismo – alle porte dell’Europa, va segnalata pure la volontà del presidente turco di ripristinare la pena di morte, se votata dal Parlamento (dove, peraltro, l’opposizione sta subendo epurazioni).
Dello stesso tenore la posizione di Rodrigo Duterte, eletto lo scorso maggio presidente delle Filippine e accusato dal suo predecessore, Benigno Aquino, di essere un potenziale dittatore. Con l’obiettivo dichiarato di combattere il narcotraffico, Duterte ha messo in strada squadroni della morte (in parte anche appartenenti alla polizia) che quotidianamente uccidono i sospettati senza processo, né difesa, mentre già all’indomani dell’elezione ha dichiarato di voler chiedere “al Congresso di ripristinare la pena di morte per impiccagione” – abolita nel Paese nel 2006 – per traffico di droga, stupro, omicidio e furto.
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