Dal voto di quel 23 giugno che avrebbe deciso il destino extraeuropeo del Regno Unito, sono passati cinque mesi. Tutto sembra essere tornato alla normalità, quella normalità che aleggiava a inizio 2013, quando David Cameron, per far crescere il suo appeal politico, prometteva un referendum a patto della vittoria del suo Partito conservatore alle elezioni politiche che si sarebbero tenute nel 2015. “Dare voce al popolo britannico”, disse il leader dei Conservative, riguardo una “semplice scelta”: rimanere o abbandonare l’Unione europea. Normalità che nessuno credeva potesse essere davvero scossa: quel che si avvertiva, piuttosto, era la sensazione di un gioco pre-elettorale, una sorta di pubblicità ingannevole per convincere quella fascia di popolo che covava segretamente un sentimento euroscettico.
Quel “semplice” sì o no. Pochi credevano in un esito negativo del referendum, neppure lo stesso Cameron che trovava nella proposta del voto popolare sull’Ue un punto di forza e una facile raccolta di voti. Si considerava “normale” dare al popolo britannico la possibilità di esprimere il proprio parere, tanto più in un Paese in cui il referendum non è vincolante da un punto di vista costituzionale. Ci si era domandati, semmai, se si potesse chiedere ai cittadini di operare una scelta di questo genere – restare nell’Ue o uscirvi, esprimendo un “semplice” sì o no –, il cui risultato avrebbe comportato conseguenze politiche, istituzionali, economiche e sociali di non poco conto.Ma – sottolineavano altri – come non dare spazio a un popolo che nel suo dna ha niente meno che la Magna Charta Libertatum?
Sterlina al ribasso. Il 23 giugno il popolo inglese ha dunque scelto, ma cosa accadrà ora realmente? I cittadini potevano immaginare che la sterlina sarebbe crollata ai livelli più bassi degli ultimi cinque anni rispetto all’euro (Micheal Hunter, “Financial Times”)? Sapevano che l’inflazione sarebbe arrivata così in basso? Probabilmente no. Quello che gli inglesi hanno avvertito è stato “solo” un abbassamento del valore della moneta. Dunque Theresa May, il primo ministro succeduto a Cameron, ha annunciato che “entro marzo 2017” chiederà all’Ue “l’avvio dei negoziati per l’uscita” dalla “casa comune” e che quindi il Regno Unito potrebbe lasciare effettivamente l’Unione entro l’estate del 2019.
Cosa è cambiato? Nel mentre, quello che si vorrebbe far percepire è, appunto, una situazione di “normalità”: niente sembra essere davvero cambiato, anche se
grandi banche e multinazionali estere cominciano a mettere nel conto di lasciare Londra;
si è inoltre proseguito a lavorare dopo le rassicurazioni dei datori di lavoro ai loro dipendenti “stranieri”; gli studenti di altre nazionalità continuano a frequentare le università britanniche dopo le e-mail che confermavano l’accettazione dei giovani europei.
Un tour fra i negozi. Ma frequentando mercati e grandi magazzini di Londra ci si può fare un’idea di ciò che pensano persone di diversa età e nazionalità, residenti nella capitale, sugli eventuali cambiamenti avvenuti nella “borsa della spesa”, argomento cui ciascuno è generalmente sensibile. Ad esempio Tony, 56 anni, titolare di una ditta import/export, figlio di genitori italiani e a Londra dall’età di 5 anni, afferma: “Dal voto del 23 giugno la sterlina è crollata rispetto alle valute principali. I prezzi dei beni importati si alzeranno del 10-15% nei prossimi mesi, le banche dicono che ci vorranno due anni prima che la sterlina recuperi. In questo momento cruciale per le decisioni relative alle future negoziazioni del Brexit – specifica – non è nell’interesse del governo inglese avere una sterlina forte. La popolazione del Regno Unito si sente molto convinta di lasciare l’Europa ed è felice di essere fuori”. Nico, 31 anni, studente italiano, residente a Londra da dieci anni: “Non ho visto alcuna differenza nei prezzi dopo il Brexit, a eccezione del settore immobiliare in centro a Londra. Qualche giorno fa Apple ha aumentato i prezzi dei computer, ma probabilmente non ha nulla a che fare con il Brexit e la svalutazione della sterlina”.
Clienti dall’estero. Inglese del Devon, Paloma, 27 anni, vive a Londra da quattro anni, lavora in un centro commerciale. Spiega: “Marchi di lusso, come Gucci, hanno alzato i prezzi dopo il Brexit, così come c’è stato uno spiccato aumento di clienti dall’estero e un’alta richiesta di best sellers. È evidente che il modo di comprare è lievemente cambiato: i clienti di altre nazionalità hanno acquistato quei beni di consumo che è possibile rivendere nei loro Paesi d’origine”. Florrin, 21 anni, studente americano, vive a Londra da gennaio: “Brexit non esiste se non nella disfatta della sterlina”. Sukhi, docente universitaria, 40 anni, nata e cresciuta a Londra, dice: “Brexit è una cosa indefinibile, ad essere colpito è in primo luogo il mercato immobiliare”.
Conseguenze del “leave”… Se nessuno intende mettere ansia nei cittadini britannici – che peraltro seguono sui media le incertezze del dopo referendum, le divisioni interne ai partiti, le premonizioni di qualche politico scaltro, le decisioni dell’Alta Corte e intravvedono un braccio di ferro tra parlamento e governo – non si può negare che il costo della vita a Londra, già elevato prima del Brexit, sia lo scudo che probabilmente impedisce di vedere nell’immediato le conseguenze della “semplice scelta” tra il “leave” e il “remain”.Si respira anche l’aria di un ritorno all’isolazionismo… Intanto si aspetta marzo prossimo per fare i conti con i cambiamenti, continuando a pagare tre sterline e mezzo per quattro pesche nettarine importate dalla Spagna.