Tra i tanti motivi per i quali l’Italia stenta a imboccare la via della ripresa economica, e con essa a far ripartire lavoro e occupazione, c’è un fatto piuttosto noto ma forse alquanto trascurato dal dibattito pubblico: quello del regime fiscale che da noi è applicato alle imprese. A proposito di fisco, è comune sentir dire che lo Stato italiano è il principale socio in affari dei nostri imprenditori, piccoli e grandi, e che ogni anno questo socio vorace si prende fino a oltre il 60% dei proventi guadagnati. E’ altrettanto diffuso parlare del “tax freedom day”, il giorno della liberazione fiscale, quando cioè si smetterà di lavorare per versare i guadagni allo Stato e si inizierà a incamerare l’utile onestamente conseguito. Secondo la Cgia di Mestre, tale “giorno di liberazione fiscale” quest’anno è scattato il 3 giugno, tre giorni prima rispetto all’anno 2015, il che significa un risparmio in tasse di quasi l’1 per cento. La stessa associazione di artigiani e piccole industrie veneta però nota come da noi “sui contribuenti onesti grava una pressione fiscale reale che quest’anno tocca il 48,4%”.
Se guardiamo in particolare alla fiscalità per le aziende, le cose purtroppo stanno ancora peggio che per i singoli cittadini.
Infatti, in una comparazione a cura della Scuola europea di alti studi tributari di Bologna, emerge che il “total tax rate” per le imprese in Italia arriva al 64,8%, valore più elevato tra i dieci paesi europei presi in considerazione in uno studio comparativo. Dietro di noi ci sono Francia (62,7%), Belgio (58,4%), Spagna (50%), Estonia (49,4%), Germania (48,8%), Ungheria (48,4%), Olanda (41%), Regno Unito (32%), Irlanda (25,9%).
Le aziende italiane scappano, le straniere non arrivano. E’ quasi banale affermare che un’azienda estera che volesse aprire una sede in uno di questi paesi europei, di fronte a livelli di tassazione così differenziati, si guarderebbe bene dal scegliere l’Italia e invece considererebbe favorevolmente gli ultimi in graduatoria dove le tasse sono decisamente più basse: Olanda, Regno Unito e Irlanda. E infatti – guarda caso – proprio questi paesi sono stati negli ultimi tempi i protagonisti di eventi simbolici: la Apple, costretta dall’Unione Europea a rimborsare l’Irlanda della multa-monstre di 13 miliardi e la stessa Irlanda che non vuole quei soldi (!) per mantenere il suo regime fiscale favorevole. Ma ancora le tante aziende italiane, tra cui il gruppo ex-Fiat oggi Fca (della famiglia Agnelli) che ha spostato sede legale e sede fiscale tra la Gran Bretagna e l’Olanda, perché burocrazia e tasse in quei due paesi sono più favorevoli. Comprendiamo bene che sono fatti rilevanti, non solo di immagine, ma per quello che vogliono dire al mondo intero:
l’Italia è tuttora un grande paese industriale, ma ha un regime fiscale eccessivamente elevato, pesante, macchinoso; è gestito da una burocrazia scoraggiante; i tempi necessari per ottenere chiarimenti e rimborsi fiscali sono lunghissimi. Risultato: le aziende italiane scappano, quelle straniere non arrivano.
Due fasi per armonizzare i bilanci in Europa. Una qualche speranza di miglioramento si va però profilando all’orizzonte. Sul piano interno, con la legge di bilancio 2017, il Governo intende stimolare le aziende (anche quelle straniere) attraverso strumenti quali i super e iper ammortamenti (fino al 270% dell’importo) per l’ammodernamento tecnologico. Sono anche previsti robusti crediti di imposta per le attività di ricerca e sviluppo, forme di sostegno agli acquisti di nuove tecnologie e nuovi servizi e agevolazioni finanziarie per dividenti, brevetti e startup. Inoltre gli sforzi statali per la banda ultra-larga e l’introduzione del 5G per le reti telefoniche e dei dati dovrebbero dare un notevole slancio alle imprese presenti e attirarne di nuove. Ma
la novità più grossa sembra essere l’ipotesi di armonizzazione fiscale per le imprese avanzata dalla Commissione Europea.
Si tratta di un progetto complesso, che dovrebbe partire con due distinte fasi temporali. Nella prima, rivolta alle multinazionali e in forma facoltativa per le altre imprese (piccole e medie), si introdurrà una imposta unica per quelle società che operano in due o più paesi dell’Unione. Nella seconda fase, prevista entro sei anni, si dovrebbe poi arrivare a un bilancio di esercizio consolidato su scala europea per tutte le società con sedi in più paesi.
Stop ai privilegi per le multinazionali. Lo scopo di queste proposte è di non consentire più situazioni definite “scandalose”, tipo le multinazionali americane che hanno goduto (in Irlanda, Olanda e Lussemburgo) di trattamenti fiscali super-favorevoli. Attualmente, infatti, per quelle aziende che lavorano in più paesi, c’è un grosso e “antipatico” lavoro di calcolo di aliquote, deduzioni, detrazioni, sconti, incentivi e così via, diverso da paese a paese. La realtà attuale è che i paesi dell’Unione Europea dicono – di sicuro con sincerità politica – di volersi unire sempre più, ma nei fatti si fanno “concorrenza” l’un l’altro a suon di sconti fiscali. E’ un po’ la stessa logica dell’accoglienza dei migranti: a parole, prevale il discorso umanitario, ma nei fatti si erigono muri e Italia e Grecia rimangono le sole ad assorbire il “popolo dei barconi” in arrivo dalle coste africane e del Medio Oriente.
Rimarranno i “muri fiscali”? L’area fiscale rimane una delle poche nell’Unione Europea in cui c’è la netta prevalenza della competenza nazionale, esclusa l’Iva che è stata armonizzata, ma con una evasione europea di 160 miliardi dei quali 36,9 in Italia (quasi un quarto del totale). Sarà interessante vedere il grado di ricezione di queste direttive. L’obiettivo è piuttosto lontano, ma non lontanissimo: nel 2020 si dovrebbe arrivare a una base imponibile comune e nel 2022 a un bilancio europeo delle multinazionali consolidato e non più frammentato nei vari stati dove operano. Anche le aziende più piccole potranno approfittare degli sconti previsti e della possibilità di compensare le perdite in uno stato con i guadagni nell’altro.
Se si arrivasse a eliminare del tutto 28 sistemi fiscali diversi, le autorità europee calcolano risparmi tali da consentire un aumento degli investimenti del 3% e dell’occupazione di mezzo punto percentuale (almeno 2-3 milioni di posti di lavoro in più).
Si ipotizza che i maggiori vantaggi sarebbero per le piccole e medie imprese europee, che godrebbero di abbattimento dei costi e facilitazioni contabili. Staremo a vedere. In Europa al momento si erigono “muri” anti-migranti e non si abbattono i “muri fiscali”.