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Un anno dopo il “bail in”, le banche italiane sono sempre febbricitanti

Di Nicola Salvagnin

E’ passato giusto un anno da quando è iniziato il cosiddetto “bail in”, cioè il recepimento da parte della nostra legislazione delle normative europee in tema di salvataggio delle banche in crisi. Il recepimento fu richiesto dalla situazione di quattro banche sull’orlo del burrone: Banca Etruria, Banca delle Marche, CariFerrara e CariChieti. Si azzerarono i risparmi di circa 130mila tra azionisti e obbligazionisti, si procedette verso un percorso di (presunto) risanamento.

Fu la goccia che fece traboccare un vaso pieno di debiti, di malagestione, di numeri truccati, di furbetti dello sportellino.

Quelle quattro banche di medio-piccole dimensioni aprirono la strada al dissesto di realtà ben più pesanti. In Veneto si scoperchiò il vaso di Pandora della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, due istituti che sotto il tappeto non avevano nascosto un po’ di polvere, ma un Everest di magagne che li ha schiacciati: non sono falliti solo perché è intervenuto il Fondo Atlante (cioè soldi parastatali più quelli delle Fondazioni bancarie) a tenere in piedi ciò che nemmeno oggi sta ancora in piedi.
Seguirono poi alcune piccole banche di credito cooperativo, un po’ troppo “vicine al territorio” quanto ad erogazione di un credito che ora – come cantava Modugno – non ritorna mai più. Le Bcc hanno poi cercato di fare sistema, aggregandosi; salvo alla fine dividersi in due grandi gruppi, che rischiano però così di essere due grandi debolezze. E poi il Montepaschi senese, alla continua ricerca di capitali e di un compratore: una buona banca gestita negli anni come peggio non si poteva, rischiare di ucciderla è stata quasi un’impresa. In negativo.
Per non parlare di una Unicredit dall’azionariato un po’ troppo “frastagliato”, molto sollecitato nel versare nuovi soldi e che nei prossimi tempi molti altri dovrà immetterne dentro la maggiore banca (quasi) italiana: si parla di un aumento di capitale di almeno 12 miliardi. Da sottolineare la parola: almeno.
E in Puglia spira aria di grossi dubbi sulla reale salute della Banca Popolare di Bari, che pare avere tutti i sintomi riscontrati in quel di Vicenza. Ma sicuramente non sarà così, visto tutti i controllori arguti e occhialuti che (non) hanno controllato in questi anni il sistema bancario italiano.

Risultato: ci sono in attività oltre 400 istituti in Italia, non pochi. Circa un decimo non gode di grande salute (tra le malate, non dimentichiamo la Carige genovese e una serie di Popolari che stanno cambiando pelle non senza sofferenza e sofferenze).

Le quattro del “bail in” iniziale stanno lì dov’erano, in un purgatorio che guarda al paradiso ma che sta ad un metro dall’inferno. Stessa sorte per le due grandi venete: vorrebbero anche unirsi, ma ogni giorno spuntano nuove rogne, le forze si fanno sempre più deboli, i piani più definiti sono quelli dei tagli: centinaia di sportelli in chiusura, migliaia di dipendenti a spasso. Ecco chi paga il conto delle malefatte di manager e presidenti che se ne sono usciti con liquidazioni milionarie.
Insomma, se non fosse per le complesse e non facili ma comunque riuscite nozze tra Banco Popolare veronese e Bpm milanese, si può ben dire – con le parole di Lucio Dalla – che un anno è finito ma qualcosa ancora qui non va. La politica e le istituzioni preposte non hanno saputo affrontare con i metodi giusti problemi complessi. Così si finisce per chiedersi, come ha recentemente fatto papa Francesco, come mai si gettano tanti soldi nelle banche, e così pochi per salvare vite umane. E gettare è il verbo giusto: un falò di miliardi di euro, di migliaia di posti di lavoro, di risparmi e investimenti, di tantissimo credito all’economia… e siamo più o meno fermi al novembre 2015.
Si potrebbe infine invocare la clemenza chiesta dal Papa per i carcerati che la meritino, sapendo perfettamente che questa mai verrà concessa ai responsabili di simili disastri per un semplice motivo: nessuno di loro è rimasto una sola ora in carcere.

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