di Gianni Borsa
BRUXELLES – Quattro candidati italiani alla presidenza del Parlamento europeo, prestigioso incarico ricoperto l’ultima volta da un connazionale, Emilio Colombo, nel 1977-79. L’inconsueta circostanza alimenta il chiacchiericcio fra Bruxelles e Strasburgo, dove, il 17 gennaio 2017, nel corso della sessione plenaria, l’Assemblea Ue sceglierà il successore del socialdemocratico tedesco Martin Schulz, che ha optato per tornare alla politica nazionale.
Nel poker di aspiranti-presidenti figurano, fra l’altro, i rappresentanti dei due gruppi politici di maggior peso dell’euroemiciclo: il Popolare Antonio Tajani, attualmente vicepresidente vicario dell’assise, già commissario europeo; e il capogruppo dei Socialisti e democratici, Gianni Pittella. A questi si aggiungono la candidata della Sinistra unitaria, Eleonora Forenza (eletta a Strasburgo nella lista Tsipras), e l’esponente del M5S, Piernicola Pedicini, a rappresentare l’Efdd (Europa della libertà e della democrazia diretta), gruppo con forti tratti antieuropei.
Non è ovviamente escluso che altri gruppi e candidati si facciano avanti prima del 17 gennaio: ad esempio il leader dei Liberaldemocratici, il belga Guy Verhofstadt, già premier nel suo Paese e federalista convinto, è dato sul trampolino di lancio. Così come potrebbe accadere che qualche eurodeputato che ha avanzato la candidatura si possa ritirare per tempo per giochi tattici ancora da definire.
L’elezione del presidente del Parlamento europeo (che, detto per inciso, certo non è questione che appassioni i 508 milioni di cittadini Ue) richiede la maggioranza assoluta dei componenti nei primi tre scrutini; poi si procede con il ballottaggio tra i due più votati.
Tutto chiaro, quindi? Nient’affatto. Anzitutto perché per arrivare a collezionare la maggioranza dei voti del Parlamento occorre costruire alleanze, politiche o tattiche che siano. I componenti dell’Assemblea sono 751: il Ppe conta 216 deputati, i Socialisti e democratici 189. Per imporsi, occorrerà che Tajani e Pittella bussino, a secondo delle tendenze politiche, alle porte di Conservatori, Liberaldemocratici ed euroscettici di destra, oppure di Liberaldemocratici (ago della bilancia?), Verdi, eurodubbiosi di sinistra.
C’è poi la variabile interistituzionale. Nel senso che la scelta del presidente del Parlamento europeo entra nel “gioco” della divisione delle tre principali poltrone Ue:oltre allo speaker del Parlamento, quella di presidente del Consiglio europeo (attualmente occupata dal popolare polacco Donald Tusk) e quella del presidente della Commissione (il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker). In realtà qualcuno mette nel conto anche il ruolo di Alto rappresentante per la politica estera, oggi appannaggio dell’italiana di centrosinistra Federica Mogherini: ma, oggettivamente, si tratta di un incarico di minore rilevanza.
Dato che a maggio 2017 si dovrà rinnovare la carica di presidente del Consiglio europeo, i socialdemocratici argomentano: tre cariche ai Popolari sono troppe, perché il Ppe non rappresenta la stragrande maggioranza degli elettori europei. Quindi se Tusk rimanesse al suo posto, il ruolo di presidente del Parlamento dovrebbe spettare – per “bilanciamento politico” – alla casa socialista.
Attorno a questi nodi, ci sono naturalmente motivazioni e progetti politici che vanno al di là della semplice, e modesta, spartizione di posti. Si chiamano in causa i valori fondativi del processo di integrazione, la reciproca necessità di marcare la distanza tra conservatori e progressisti, la volontà di segnare la differenza – in chiave anti-populisti – tra Europa dell’austerità ed Europa della crescita. Benché su questi versanti si faticano a intravvedere le profonde diversità e i veri progetti innovatori.
Restano, dunque, sul tavolo le candidature, mentre nei corridoi e nelle cene brussellesi si lavorerà con diplomazia per trovare la quadra. Considerando, fra l’altro, che i capi di Stato e di governo Ue – riuniti oggi a Bruxelles per il summit – vorranno far sentire la loro voce e misurare la propria influenza sulla scelta del successore di Schulz. Angela Merkel potrebbe, come spesso accade, lanciare la sua “opa” sul voto di metà gennaio.
L’Italia, peraltro indebolita dalla mancanza di stabilità politica (che in Europa conta molto più di altre caratteristiche), ha tutte le ragioni per ambire a tale carica con una o un suo rappresentante. Si tratterà di capire, soprattutto da Tajani e Pittella, se ci sarà un gioco di squadra nazionale o se, pur legittimamente, prevarranno gli schieramenti partitici. Perché c’è il rischio che tra i quattro litiganti… il quinto (Verhofstadt) goda.
Così che l’Italia avrà forse vinto il girone d’andata, cedendo il passo nel rush finale.
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