In carcere, a parte l’eccezione di Milano Bollate, vengono reclusi in sezioni separate e protette, quelle destinate, in gergo, agli “infami”. Buona parte dell’opinione pubblica chiede per loro pene più dure, tipo la castrazione chimica (possibile in alcuni Paesi europei) o quantomeno di tenerli dietro le sbarre e “buttare la chiave”, per evitare che ripetano gli atti gravi di cui si sono macchiati: violenza sessuale, abusi su minori, pedopornografia, esibizionismo. Sono i “sex offenders”, che insieme ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle forze dell’ordine, sono i più mal visti dalla popolazione carceraria e non solo. A Bollate sono 400, a Roma Rebibbia 90. In tutta Italia nel 2012 erano circa 2000, una piccola parte di chi commette reati sessuali, perché il 95% delle vittime non denuncia. Il timore che, una volta usciti dal carcere, possano compiere di nuovo quei reati, è parzialmente smentito dalle statistiche internazionali e nazionali: circa il 17% incappa in una recidiva, di solito i casi più gravi che hanno un disturbo pedofilico o una compulsione ad agire in maniera costante. Il dato potrebbe essere abbattuto fino al 9% e anche di più, se questa tipologia di detenuti avesse la possibilità di partecipare ad un percorso di trattamento con équipe specializzate di psicologi-psicoterapeuti, criminologi, musicoterapeuti:
sarebbe il modo migliore per costruire sicurezza nei territori, evitare ulteriori violenze su donne e minori e ottemperare al dettato costituzionale che considera il carcere come mezzo per il recupero e il reinserimento sociale della persona.
Nel solo carcere di Bollate su 250 sex offenders trattati in dieci anni dall’equipe del Centro italiano per la promozione della mediazione (Cipm), pionieri in quest’ambito, sono state registrate solo 7 recidive. Il nodo critico è che, a parte Bollate e Rebibbia, dove si è appena concluso un progetto biennale con una trentina di “sex offenders”, negli altri istituti penali non si fa nulla. Né all’interno né all’esterno del carcere. Eppure l’Italia ha aderito alla Convenzione di Lanzarote, secondo la quale gli Stati dovrebbero mettere in atto programmi per evitare la recidiva. Però nella legge del 2012 il testo recepito è stato un po’ cambiato, per cui viene a cadere l’obbligatorietà.
Il segreto? “Trattare i detenuti come persone”. “Ci sono stati altri tentativi nelle carceri di Vercelli e Torino ma di breve durata”, spiega al Sir Carla Maria Xella, psicologa-psicoterapeuta del Cipm e coordinatrice del programma per sex offenders di Rebibbia. Xella è stata tra le prime, con l’equipe del Cipm, a mettere in piedi nel 2005 l’esperimento riuscitissimo nel carcere di Milano Bollate, dove non ci sono reparti protetti e ad ogni detenuto è richiesto di firmare una carta in cui dichiara di non avere pregiudizi e accetta la possibilità di condividere la cella anche con un sex offender. “Nelle sezioni protette ci sono molte restrizioni rispetto al lavoro e alle attività, che non possono frequentare insieme agli altri. Lo trovo assurdo: è una cessione di potere, da parte dello Stato, alla cultura mafiosa”, commenta la psicoterapeuta, che si occupa di questo tema delicato da sedici anni: “All’inizio è stato difficile. Ero spaventata, lo sarebbe chiunque. Ora per me sono come gli altri pazienti, non ho una particolare avversione. Importante è la professionalità dell’approccio. Ci sono dei rischi solo se non si è sufficientemente preparati: ad esempio la collusione, perché sono persone molto convincenti e riescono, nella loro negazione del reato (perché tutti negano), a convincere gli operatori. Il segreto è sempre lo stesso, e chi lavora in carcere lo sa: trattare i detenuti come persone”.
Un metodo di successo. Il metodo sperimentato con successo a Bollate – sull’esperienza è stato realizzato anche il film documentario “Un altro me” di Claudio Casazza, premiato dal pubblico alla recente edizione del Festival dei popoli di Firenze – è di impronta cognitivo-comportamentale e proviene dalla tradizione canadese e statunitense. “Oggi si utilizza molto il modello ‘Good lives model’ – precisa la psicologa -. Tende a considerare chi ha commesso il reato come una persona che non ha gli strumenti né la volontà di soddisfare i suoi bisogni in una maniera pro-sociale”. Il trattamento è prevalentemente di gruppo, con incontri individuali. Ed è volontario, ossia aderiscono quelli che vogliono mettersi in discussione e cambiare. A Milano il Cipm segue le persone in carcere e con un presidio sul territorio, tramite i cosiddetti “circoli di sostegno alla responsabilità”, con volontari che incontrano periodicamente le persone a più alto rischio, già consapevoli della loro pericolosità.
Dalla pedofilia si guarisce? “Non si guarisce ma
si imparano a gestire le fantasie devianti e le relazioni con gli altri
– puntualizza Xella -. E’ importante ricordare che non tutti quelli che agiscono violenza sessuale sui bambini sono pedofili. Però tutti hanno una patologia delle relazioni. Di solito hanno avuto una infanzia non protetta: trascuratezza, episodi di violenza anche solo fisica, poca protezione dal mondo adulto. Hanno imparato che il rapporto con l’altro può essere predatorio, di sopraffazione, con bisogni molto primitivi che non hanno imparato a soddisfare nella maniera giusta”.
Perché è un reato così difficile da perdonare? “E’ un reato conosciuto pochissimo nelle sue sfumature – afferma – perché si fa di ogni erba un fascio, si considerano tutti parimenti a rischio di recidiva. Pochissimi sanno che la recidiva più alta è tra gli stupratori, ossia tra gli autori di violenza su adulti, non su bambini. Eppure
non esiste proprio l’idea che si possa fare qualcosa, mentre si può fare tantissimo”.
L’esperienza di Bollate e Rebibbia è quindi una buona prassi ripetibile anche in altre carceri. Molte Asl locali già chiedono una formazione in materia. Nonostante l’ottima collaborazione realizzata finora con gli istituti penali dove è stato attuato il progetto, permangono le difficoltà nel reperire le risorse. “Ora a Rebibbia stiamo cercando nuovi finanziamenti, pubblici o privati”.