Nessuno sa esattamente cosa sia successo e cosa stia ancora succedendo ad Aleppo. Le informazioni sono poche, le fonti affidabili ancora meno. Da una parte l’opinione pubblica mondiale, Europa in primis, segue il dramma della città siriana distrattamente, preoccupata principalmente per le crisi politiche interne a molti Paesi, per l’economia balbettante, al massimo per i flussi migratori e i rischi di attentati terroristici. Aleppo non riesce a bucare lo schermo e a catturare l’attenzione come era invece riuscita a fare Sarajevo venti anni fa. Questa città patrimonio dell’umanità ormai ridotta a un cumulo di macerie non si è neppure meritata una canzone degli U2. Dall’altra parte il regime di Assad, rafforzato dal sostegno russo, è riuscito a imporre un controllo sul flusso di notizie come non erano in grado di fare le parti che si combattevano in Bosnia. Le truppe di Assad hanno riconquistato Aleppo, ma gli inviati dei maggiori quotidiani occidentali sono stati tenuti alla larga.
Serviranno dunque mesi per capire esattamente come sia stata usata la violenza ad Aleppo e nelle sue immediate vicinanze durante questi sei mesi di assedio.
In assenza di informazioni affidabili e precise sulla violenza contro i civili, che rappresenta un tratto tipico delle guerre civili, è necessario concentrarsi sulle poche cose certe. Sul piano militare, le truppe di Assad, sostenute dall’aviazione russa, dalle milizie sciite irachene, iraniane e da Hezbollah hanno riconquistato il controllo della città. I ribelli sunniti, compresi alcuni gruppi legati ad Al Qaeda, sono stati sconfitti con una strategia basata su pesanti bombardamenti e, alla fine, sulla possibilità di scegliere fra la morte e l’abbandono della città attraverso un’unica via di uscita controllata. In mezzo a tutto ciò stavano i civili, di cui non sappiamo molto ma che certamente sono stati bombardati senza pietà, usati come scudi umani, vessati da molteplici ricatti e violenze per assicurarsi la loro fedeltà o per estrarre da loro le poche risorse ancora disponibili.
Secondo lo Stato Maggiore russo e il portavoce del governo di Assad, la missione è stata compiuta e la fine della battaglia di Aleppo rappresenta una conquista storica per la Siria.
Probabilmente sarebbe il caso di usare toni meno trionfalistici, per almeno un paio di motivi.
Prima di tutto, perché Aleppo è una città completamente distrutta, dove sono morti migliaia di innocenti e in cui sono stati compiuti atti di barbarie per mesi. In secondo luogo perché nel lungo termine l’esito della battaglia potrebbe essere meno netto di quanto i vincitori non vogliano ammettere. Prendere una città che il nemico considera di vitale importanza non è un’impresa semplice. Aleppo non è stata la prima città a essere conquistata dopo un bombardamento sistematico, ma scelte di questo tipo non sono prive di conseguenze. Quando si conquista una città dopo aver inflitto danni incalcolabili alle sue strutture e alla sua popolazione, è necessario mostrare a chi rimane che lo si è fatto per evitare alla città un futuro peggiore. In altre parole,
se si vuole veramente conquistare e mantenere la città nel lungo periodo è fondamentale mostrare la differenza fra chi controllava prima la città e i nuovi conquistatori.
Senza la costruzione di una vera legittimità, la violenza passata darà luogo a un risentimento che prima o poi tornerà ad affiorare. Nel caso di Aleppo, pare lecito dubitare che il regime di Assad possa garantire l’inclusione e lo sviluppo necessari per conquistare sinceramente la fedeltà di una popolazione così profondamente vittimizzata. Inoltre, l’evacuazione dei civili in atto negli ultimi giorni nasconde un lato poco osservato. La maggior parte di loro sono sunniti, e infatti si dice che in molti casi i componenti maschi adulti delle famiglie vengano prelevati dalle forze governative e fatti sparire. Lasciando pure da parte questo ulteriore problema, l’evacuazione di civili prevalentemente appartenenti a una data comunità rappresenta anche un atto politico. Si tratta del tentativo di omogeneizzare la geografia etno-religiosa dell’area e di realizzare una partizione “de facto” della Siria, per tentare di rendere più semplice il controllo del territorio e della popolazione che lo abita. È un tentativo comprensibile, che a prima vista appare razionale, ma importanti studi sulle conseguenze delle guerre civili hanno mostrato che questo tipo di soluzioni sono illusorie e non garantiscono la pace se non sono accompagnate da reali forme di partecipazione alla gestione del potere da parte delle comunità coinvolte. Dunque, in prospettiva è indispensabile affrontare il nodo rappresentato dal regime di Assad, o la Siria potrebbe diventare una regione di confitto endemico.