di Massimo Naro
Tra i canti antichi della novena natalizia spiccano le note del Maranathà. Questo canto aramaico non celebra soltanto la prima venuta del Figlio di Dio a Betlemme, ma pure il perdurante ritorno del Risorto. Non a caso i primi cristiani lo cantavano quando celebravano l’eucaristia. Perciò il Natale si può intendere come l’intreccio di ricordo e attesa. Il suo senso principale è “eucaristico”: il Signore è venuto e verrà. Ma, soprattutto, viene.
È un buon segno: vuol dire che il Natale non smette d’essere ciò che dev’essere, cioè un fatto straordinario, fuori dalla routine, che ci coglie di sorpresa. Esso non è una semplice ricorrenza annuale, non è una mera scadenza segnata in rosso sul calendario. È, invece, un “di più” che sovreccede le nostre abitudini, le nostre previsioni, i nostri preventivi. E scardina le nostre convinzioni, le nostre convenienze, le nostre convenzioni. Non a caso la liturgia, durante l’Avvento, ci ricorda le parole del Battista: “Viene, dopo di me, Uno che è più grande”. Giovanni è il punto più avanzato delle speranze umane, l’evoluzione più progredita della storia religiosa d’Israele, l’ultimo degli antichi profeti. Ma l’Altro ch’egli annuncia è di più. Se Giovanni impersona l’anelito umano verso Dio, l’Altro è il divino oltrepassarsi in direzione degli uomini, è il punto di non ritorno fin dove Dio si spinge per approssimarsi a noi.
Per questo il Natale è la cifra di una Novità radicale che ci raggiunge dall’Alto, venendo a seminare il cambiamento nella nostra storia comune, nelle nostre personali vicende, nelle nostre esistenze.
Eppure il mondo rimane sempre lo stesso e, se cambia, pare farlo in peggio…
Ciò è coerente alla verità del Natale, che non celebra il cambiamento “del” mondo bensì il cambiamento “nel” mondo. Il mondo non cambia da sé, ma è cambiato da un Altro: la nascita di Dio nel Bimbo di Betlemme è questo cambiamento che s’insinua nel mondo, nascondendovisi come un seme tra le zolle, come un pizzico di lievito in mezzo alla farina, come il sale nelle pietanze, senza pose eclatanti, senza apparati altisonanti, nella più normale ferialità.
Sembra un paradosso…Del resto c’è qualcosa di paradossale già nei racconti evangelici che riguardano il Natale: il Verbo si fa carne, la Novità eterna si traduce in ciò che è caduco e invecchia. E così, come proclama il Quarto Vangelo, la luce non viene accolta dalle tenebre. Non ci si accorge di ciò che avviene nel Natale, perché lo si guarda con occhi mondani. Il mondo guarda e vede soltanto un lattante. E si scandalizza, o si annoia. Il cambiamento sta non in ciò che il mondo riesce a vedere, ma in ciò che ormai quel Bimbo vede. Il mondo cambia perché è il Bimbo che lo guarda, con la luce nuova dei suoi occhi puri.
Forse è per questo che le sapienti tavole dei pittori tardo-medievali e rinascimentali ritraggono san Giuseppe, presso la mangiatoia, quasi sempre con gli occhi chiusi, come se rinunciasse a scrutare il neonato di Betlemme per esporsi piuttosto allo sguardo giocoso del piccolo, mentre sulle labbra gli fiorisce un sorriso che esprime la sua serena e serenante meraviglia.
È appunto con meraviglia che si deve considerare e vivere il Natale… Ciò significa non fermarsi alle artificiose apparenze, cercare una prospettiva differente da quelle più ovvie, che tanti danno per scontate. È come fare il detective. O essere filosofo. O, più precisamente, saggio: insomma, vuol dire assomigliare a san Giuseppe, che “mentre pensava, sognava”, unendo così la forza della ragione a quella della fede.
Ci si può chiedere se sia umanamente possibile…L’essere umano, in Cristo Gesù, è stato creato capace proprio di questo, come ha scritto Giovanni Paolo II di Adamo: “Ed era unico, col suo stupore, tra le creature che non si stupivano, per le quali esistere e scorrere era sufficiente”. Meravigliarci, a Natale, significa tornare a essere veri uomini.
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