PianistaCristina Marinoni

Quando viveva a Yarmouk, campo profughi palestinese a sud di Damasco, Aeham Ahmad rispondeva ai sibili aspri delle bombe con le note dolci del pianoforte, che trasportava su un carretto lungo le strade disseminate di macerie. E si metteva a suonare proprio lì, in mezzo agli edifici sventrati, per lanciare un messaggio di speranza: “La musica dà conforto, coraggio e gioia anche dove terrore e angoscia oscurano il futuro” spiega. Prima la guerra civile, poi l’Isis, la Siria non trova pace dal 2011 e Ahmad – nato a Damasco nel 1988, musulmano – è diventato il simbolo della sua terra, oltre che una leggenda. Celebre in tutto il mondo come “il pianista di Yarmouk”, è rifugiato in Germania da circa un anno e mezzo; appena arrivato, ha ritirato a Bonn il Premio Beethoven per l’impegno a favore di “diritti umani, pace, integrazione e lotta alla fame” e ha cominciato a tenere concerti in giro per l’Europa (il tour italiano parte il 6 gennaio da Locorotondo, Bari).

La cosa più preziosa che ha lasciato a Yarmouk?
I miei genitori, spero che un giorno riescano a raggiungermi, e mio fratello, di cui abbiamo perso traccia oltre quattro anni fa. Ha 24 anni, faceva il falegname ed è in prigione senza motivo. Non era un combattente e non sappiamo né in quale carcere sia rinchiuso né se sia vivo.

Come si trova in Germania?
Bene, e da alcuni mesi ancora meglio: finalmente ho accanto mia moglie e i nostri due figli, di 2 e 4 anni. La loro assenza e l’angoscia del pericolo che correvano sono state fonti di estrema sofferenza.

Come ha superato il periodo difficile?
Grazie a un doppio sostegno: l’accoglienza solidale di questo Paese, al quale sono profondamente riconoscente per la dedizione alla causa dei rifugiati siriani, e l’affetto di molti amici che si erano già trasferiti qui. Il loro entusiasmo mi aveva spronato a seguirli e sono felice della scelta: la Germania mi ha salvato la vita.

Perché?
Dalla primavera del 2015 gli islamisti hanno proibito la musica.

Io devo esercitarmi almeno quattro ore al giorno e lo facevo nei quartieri più desolati di Yarmouk: era un modo per rasserenare il clima e tenere vivo il campo profughi, ridotto a poche migliaia di anime abbandonate a se stesse.

Se fossi rimasto a Yarmouk, mi avrebbero ucciso di sicuro, hanno persino bruciato il mio pianoforte di fronte a me.

Quando è nata la sua passione per la musica?
Da piccolo, l’ho ereditata da mio padre che suona il violino nonostante la cecità: mi ha iscritto lui alla scuola di musica. Avevo 5 anni e a 23 mi sono diplomato al conservatorio di Damasco, poi sono diventato insegnante.

Da insegnante a stella internazionale: era questo il suo obiettivo?
No, non ho mai puntato al successo. Certo, la soddisfazione di pubblicare il primo album (Music for hope nel 2016, ndr) ed esibirmi davanti a platee da togliere il fiato – a Monaco di Baviera, per esempio, nel 2015 c’erano 45mila persone – è grandissima. Ma il mio unico sogno è sempre stato quello di dedicarmi ai ragazzi, trasmettere loro l’amore per le note e spiegare che dobbiamo sfruttare il potere eccezionale della musica.

Sarebbe?
È una straordinaria costruttrice di pace, perché con il suo linguaggio universale arriva diretta al cuore e abbatte le barriere. Non solo, secondo me è una medicina prodigiosa, per il corpo e lo spirito: sono convinto che 30 ore in ascolto di Bach curerebbero anche l’anima degli uomini più spietati.

Il suo compositore preferito?
Beethoven, folle come me e vero rivoluzionario: ha stravolto la tradizione classica e infranto ogni regola per creare lo stile romantico. Nel mio piccolo tentativo di portare la pace attraverso la musica mi ispiro a lui e nei momenti di smarrimento mi viene in soccorso la sua Sinfonia n. 9. L’Inno alla gioia mi carica di energia e fiducia.

A proposito di fiducia: crede che la guerra in Siria terminerà a breve?
Temo di no: alcuni gruppi stanno ancora combattendo. A Damasco non c’è acqua e io sono preoccupatissimo per il mio popolo che è allo stremo delle forze, vittima innocente degli interessi economici: come sempre,

la guerra è una questione di denaro, di affari tra petrolio e armi. Come sempre, la religione non c’entra: musulmani e cristiani convivono in armonia.

Ora, invece, convivono nel terrore, costretti a subire violenza e oppressione.

Se domani tornasse la pace, cosa farebbe?
Partirei subito. Con gioia immensa, ricomincerei a insegnare musica e a preparare falafel. Sì, oltre a suonare, prima di andarmene distribuivo polpette per strada: i miei fratelli morivano di fame e adesso li troverei nelle stesse condizioni drammatiche. Come potrei non darmi da fare per aiutarli a sopravvivere?

Entra a far parte della Community de L'Ancora (clicca qui) attraverso la quale potrai ricevere le notizie più importanti ed essere aggiornati, in tempo reale, sui prossimi appuntamenti che ti aspettano in Diocesi.

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *