In un mondo dominato da “conflitti insensati” e da “un senso generale di paura”, la pace è troppo spesso “un lontano miraggio”. A denunciarlo è Papa Francesco, che ha scelto di dedicare proprio al tema della sicurezza e della pace il suo quarto discorso al Corpo diplomatico. Un secolo dopo la fine del primo conflitto mondiale, definito da Benedetto XV “inutile strage”, Francesco vuole “rivolgere una parola di speranza, che indichi anche una prospettiva di cammino, nel clima di generale apprensione per il presente e d’incertezza per l’avvenire, nel quale ci troviamo immersi”. L’appello è indirizzato non solo ai capi di Stato e di governo, ma a tutte le “persone di buona volontà”, chiamate a fare ognuna la propria parte per promuovere la pace. A cominciare dalle religioni, sollecitate a dire no al “terrorismo fondamentalista”. Pace, insomma, come “virtù attiva”, da realizzare facendo della misericordia un “valore sociale” e da concretizzare attraverso “un impegno comune nei confronti di migranti, profughi e rifugiati”. Un “approccio prudente” che non comporta “politica di chiusura”, né si esplica tramite “un semplice conteggio numerico”. Ha a che fare, invece, con “gesti concreti di umanità”, come quelli dimostrati sul versante dell’accoglienza da Paesi come l’Italia, la Germania, la Grecia e la Svezia. Attualmente la Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con 182 Paesi.
Il terrorismo “di matrice fondamentalista” è “una follia omicida che abusa del nome di Dio per disseminare morte”, tuona il Papa citando le “numerose vittime” che ha mietuto lo scorso anno in tutto il mondo. “Non si può uccidere in nome di Dio”, ripete: l’antidoto è “il comune contributo dei leader religiosi e di quelli politici”. No, allora, al “quieto vivere”, sì invece alla pace come “virtù attiva”, che “richiede l’impegno e la collaborazione di ogni singola persona e dell’intero corpo sociale nel suo insieme”. “Edificare la pace” vuol dire anche esercitare la giustizia “con il perdono”, come hanno fatto alcuni capi di Stato o di governo, accogliendo l’invito di Bergoglio “a compiere un gesto di clemenza verso i carcerati”.
La misericordia è “un valore sociale”, dice il Papa tracciando un bilancio del Giubileo appena trascorso: e proprio con la “cultura della misericordia” si possono “costruire società aperte e accoglienti verso gli stranieri e, nello stesso tempo, sicure e in pace al loro interno”. Per affrontare adeguatamente i flussi migratori, propone Francesco riprendendo il tema centrale del discorso al Corpo diplomatico dell’anno scorso, “occorre un impegno comune nei confronti di migranti, profughi e rifugiati, che consenta di dare loro un’accoglienza dignitosa”:
“Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione. Soprattutto non si può ridurre la drammatica crisi attuale ad un semplice conteggio numerico. I migranti sono persone, con nomi, storie, famiglie e non potrà mai esserci vera pace finché esisterà anche un solo essere umano che viene violato nella propria identità personale e ridotto ad una mera cifra statistica o ad oggetto di interesse economico”.
Sul versante dell’accoglienza servono “gesti concreti di umanità”, come è accaduto e accade in Italia, Germania, Grecia e Svezia. “I bambini e i giovani sono il futuro, non possono venire egoisticamente trascurati e dimenticati”, ammonisce il Papa definendo “prioritaria” la difesa dei bambini, “la cui innocenza è spezzo spezzata sotto il peso dello sfruttamento, del lavoro clandestino e schiavo, della prostituzione o degli abusi degli adulti, dei banditi e dei mercanti di morte”.
In Siria la comunità internazionale deve adoperarsi “per dare vita ad un negoziato serio, che metta per sempre la parola fine al conflitto, che sta provocando una vera e propria sciagura umanitaria”:
per raggiungere tale obiettivo bisogna anche “debellare il deprecabile commercio delle armi e la continua rincorsa a produrre e diffondere armamenti sempre più sofisticati”, così come porre fine agli “esperimenti” nucleari condotti nella penisola coreana. Francesco stigmatizza anche la “facilità” con cui spesso si accede agli armamenti convenzionali, “anche di piccolo calibro”.
“La Santa Sede rinnova il suo pressante appello affinché riprenda il dialogo fra israeliani e palestinesi, perché si giunga ad una soluzione stabile e duratura che garantisca la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini internazionalmente riconosciuti. Nessun conflitto può diventare un’abitudine dalla quale sembra quasi che non ci si riesca a separare. Israeliani e Palestinesi hanno bisogno di pace. Tutto il Medio Oriente ha urgente bisogno di pace!”.
Sono le parole dedicate a uno dei conflitti più tragici e persistenti nel mondo, che spesso sono suscitati da “ideologie” che fomentano l’odio. La pace, invece, “si conquista con la solidarietà”, la ricetta di Francesco, che tra i frutti positivi del dialogo promosso dalla Santa Sede cita quelli “per riavvicinare Cuba e gli Stati Uniti” e “per terminare anni di conflitto in Colombia”.
Per quanto riguarda il nostro Continente, Francesco chiede di “aggiornare l’idea di Europa”, per “dare alla luce un nuovo umanesimo basato sulle capacità di integrare, di dialogare e di generare”. Il discorso al Corpo diplomatico si conclude con un invito ad “adoperarsi attivamente per la cura del creato” e con un plauso al “caro popolo italiano” per il modo in cui ha affrontato l’emergenza terremoto: l’auspicio del Papa è che questa “solidarietà” continui “ad animare l’intera nazione, soprattutto in questo tempo delicato della sua storia”.