di Daniele Rocchi
Nel 2017 ricorreranno i 50 anni dell’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi in seguito alla Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967), che vide da un lato Siria, Giordania ed Egitto e, dall’altro, Israele che uscì vittorioso su tutti e tre i fronti, conquistando, tra le altre cose, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania.
Il 22 novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò la Risoluzione 242 con cui chiedeva la fine di ogni atto di belligeranza in Medio Oriente, il rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato dell’area, una giusta soluzione del problema dei profughi, il ritiro delle Forze armate israeliane “from Occupied territories” (da territori occupati, testo inglese) e “des territoires occupés” (dai territori occupati, testo francese). Una sfumatura grammaticale di non poco conto che ha generato differenti interpretazioni diplomatiche per nulla chiarite in questi 50 anni. Non servì nemmeno l’approvazione, sempre da parte del Consiglio di Sicurezza, della Risoluzione 338 (dopo la Guerra del Kippur, 1973), che chiedeva, tra l’altro, la piena attuazione della 242.
Territori occupati e insediamenti. Da qui in poi tutti i governi che si sono susseguiti in Israele in questi 50 anni (siano essi di unità nazionale, centro-destra e centro-sinistra) hanno favorito nelle aree occupate gli insediamenti (settlements) abitati dai coloni spesso arrivati da Usa, Est Europa. Dai 10mila che erano nel 1972, oggi, secondo Peace Now, i coloni sarebbero 570mila (370mila in Cisgiordania, e 200mila a Gerusalemme Est) residenti in 97 avamposti (non autorizzati), 147 insediamenti, dei quali 17 a Gerusalemme Est. La presenza delle colonie è uno dei tratti distintivi dell’occupazione militare israeliana dei Territori Palestinesi. Secondo Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, ong israeliana per i diritti umani, essa si caratterizza per “una invisibile, burocratica violenza quotidiana, ai danni della popolazione palestinese, dalla culla alla tomba” e si traduce in “espropri forzati, deportazione di intere comunità, omicidi extragiudiziali, arresti e imprigionamenti senza processi, che riguardano anche bambini, controllo sugli ingressi e l’uscita dai territori, il divieto di accesso alle risorse di base, come l’acqua”.
50 anni di fallimenti e sogni infranti. Una situazione in continua evoluzione che impedisce ogni tentativo di trovare la pace ma che pure ha avuto in questi 50 anni diversi sussulti negoziali, come ricorda Janiki Cingoli, direttore del Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente), da oltre 36 anni attento osservatore del conflitto israelo-palestinese. Battute d’arresto come “l’uccisione di Rabin, il 4 novembre 1995, per mano di Ygal Amir, un colono ebreo estremista e le divisioni, in campo palestinese, tra Fatah e Hamas”. Ma anche passi significativi: gli accordi di Camp David, nel 1978, siglati dal presidente egiziano Anwar Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin. L’Egitto fu il primo Paese arabo a riconoscere lo Stato ebraico; la conferenza di Madrid (1991), premessa dell’accordo di pace siglato nel 1994 tra Giordania e Israele. In mezzo gli accordi di pace di Oslo nel 1993 in cui Yitzhak Rabin per Israele e Arafat per l’Olp arrivarono a un reciproco riconoscimento. L’intesa fu osteggiata dagli estremisti delle due parti: Israele fu scosso da attentati kamikaze da parte di Hamas e della jihad, Rabin fu ucciso da un colono ebreo. Seguirono altri incontri a Taba (1995), Wye River in Maryland (1998), Sharm el Sheikh (1999) e nel 2000, anno della seconda Intifada, a Camp David tra Ehud Barak e Yasser Arafat. Senza risultati l’iniziativa di pace dei Paesi arabi (2002), del quartetto Usa, Ue, Russia e Onu (2003) e la conferenza di Annapolis (2007). Il resto è storia recente con le guerre nella Striscia di Gaza, i tentativi del presidente Usa, Barack Obama, di congelare gli insediamenti e del suo Segretario di Stato, John Kerry.
Conflitto oramai marginale. “Oggi questo conflitto è diventato marginale nello scacchiere mediorientale.
L’attenzione della comunità internazionale – spiega Cingoli – è puntata sulla crisi siriana, irachena, libica e yemenita, sul conflitto tra sciiti e sunniti e tra sunniti stessi (Arabia Saudita e Egitto). L’orientamento è più quello di un ‘conflict management’ che di un ‘conflict resolution’”.
Una posizione per certi versi condivisa anche “da Israele perché interessato a mantenere lo status quo e qualsiasi cambiamento e/o concessione rischierebbe di mettere in crisi l’equilibrio politico interno soprattutto nella destra”. Come anche dai palestinesi. In particolare dal presidente Abbas perché “in caso di elezioni politiche in Cisgiordania non avrebbe certezza di mantenere il potere e il controllo dell’enorme flusso di finanziamenti soprattutto europei” e da Hamas che “non vuole mettere a rischio il suo controllo su Gaza”. Senza dimenticare, spiega il direttore del Cipmo, che
“è la comunità internazionale a pagare l’occupazione. Gli aiuti internazionali, infatti, servono a sostenere la società civile palestinese. In caso di crollo dell’Autorità nazionale palestinese spetterebbe all’occupante israeliano provvedere.
L’attuale situazione quindi permette a Israele di risparmiare i soldi per mantenere la struttura civile dell’occupazione come anche di risparmiare in termini di sicurezza perché i servizi palestinesi lavorano anche per lui”.
La solitudine dei palestinesi. Tuttavia il rischio di una violenta reazione palestinese – in 50 anni anche due Intifada, 1987 e 2000 – non è da escludere, visto il deterioramento della situazione sul terreno. Ma senza particolari risultati. Per Cingoli, infatti, “Israele cercherà di evitare il crollo dell’Autorità nazionale palestinese. I palestinesi, poi, non hanno più l’appoggio dei Paesi arabi che ora hanno un asse con Israele in funzione anti-Iran. Abbas deve fare i conti con il rapporto stretto tra Israele, Russia e Turchia, tra Israele e l’Egitto. Le due intelligence collaborano in funzione anti-Isis sul Sinai. Israele vanta anche ottimi rapporti con la Cina, l’India, i Paesi dell’Est Europeo e con il Centro Africa dove le tecnologie d’irrigazione israeliana sono ricercate. Resta il rischio attentati da parte di lupi solitari che rischia di diventare endemico poiché espressione del conflitto irrisolto”.
La soluzione “Due Stati, due Popoli” ancora praticabile? Nel quadro attuale sostiene il direttore del Cipmo, “la linea ufficiale resta quella dei Due Stati, con Israele che nel frattempo continuerà a prendere terre ai palestinesi”. Più che Due Stati, “Israele sembra preferire la via di tre Stati: Gaza con Hamas, Cisgiordania con Fatah e Israele stesso, che potrebbe rinunciare agli insediamenti più lontani e agli avamposti”. Ma sul futuro, grava l’incognita del neo eletto presidente americano Trump. “Le sue prime mosse (la nomina dell’ambasciatore in Israele, David Friedman, sostenitore degli insediamenti) sembrano non tenere conto degli interessi palestinesi”, dichiara Cingoli, per il quale la Risoluzione 2334 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 23 dicembre, contro gli insediamenti israeliani – con la storica astensione degli Usa, – è il lascito di Obama a Netanyahu e Donald Trump. Insomma, dopo 50 anni, niente soluzioni ma solo Risoluzioni sepolte.