Nel nostro Paese è tempo di riflessione ed elaborazione normativa circa la fase del fine-vita. In questi giorni, infatti, è in discussione presso la Commissione Affari Sociali della Camera un disegno di legge dal titolo “Norme in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari”, testo che approderà alla discussione in Aula, con ogni probabilità, verso la fine di questo mese.
Collegati alla fase del fine-vita temi particolarmente “sensibili” dal punto di vista etico: proporzionalità delle cure, accanimento terapeutico, direttive anticipate di trattamento, eutanasia ed altri.
Temi che, da decenni ormai, impegnano anche il pensiero cattolico – con le sue varie espressioni e sensibilità – in uno sforzo sincero di comprensione ed approfondimento, alla ricerca di strade moralmente giustificate e percorribili nelle scelte operative, sia da parte dei pazienti che degli operatori sanitari che li hanno in cura, possibilmente in modo concordato e condiviso.
Sul fronte cattolico, al di là di slogan e frasi fatte – solitamente buoni compagni di chi predilige un approccio ideologico e superficiale – cosa ha veramente indicato su questo tema il magistero della Chiesa, per sostenere ed illuminare la coscienza dei fedeli (e di ogni persona di buona volontà)?
Negli ultimi settant’anni, sono quasi una decina i pronunciamenti principali che, sotto diverse angolature, si sono occupati di questa tematica. In ordine cronologico: Pio XII, Disc. Risposte ad alcuni importanti quesiti sulla “rianimazione”, Congresso di anestesiologia (24-11-1957); Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruz. Iura et Bona (1980), parte IV; Pontificio Consiglio “Cor unum”, Dans le cadre. Questioni etiche relative ai malati gravi e morenti (27-6-1981), n. 2.4, 7.2-3; Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti ad un corso internazionale di aggiornamento sulle preleucemie umane, (15-11-1985), n. 5; Giovanni Paolo II, Catechismo della Chiesa Cattolica (1992), n. 2278; Giovanni Paolo II, Enc. Evangelium Vitae (1995), n. 65; Pontificio Consiglio per la Pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari (1995), nn. 63-65; 119-121; Giovanni Paolo II, Disc. ai partecipanti al Congresso Internazionale sullo stato vegetativo (2004), n. 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposte a quesiti della conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, con Nota di commento (2007).
Non è certo questa la sede opportuna per un’analisi approfondita dei contenuti di questi singoli documenti. È forse possibile, però, tentare di ricostruirne – in modo schematico – il messaggio di fondo e i punti fermi che lo sostengono.
L’essere in vita, per la persona umana, costituisce un bene primario, essendo condizione di possibilità per il pieno sviluppo di tutti gli altri beni personali. Un tale bene, dunque, merita di essere tutelato e promosso prima di tutti gli altri. Ma al tempo stesso va ricordato che la vita fisica non è un bene “assoluto”, essendo anch’essa subordinata alla finalità ultima della persona: la pienezza della vita eterna.
In questo quadro, l’essere in buona salute ovviamente rappresenta per la persona una condizione generalmente favorevole alla sua realizzazione e, in quanto tale, un bene utile, anch’esso orientato alla finalità ultima dell’essere umano.
Ne deriva, sul piano etico, che ogni persona (e chiunque ha il compito di prendersene cura) ha il diritto/dovere, soprattutto in caso di malattia grave, di intraprendere le cure necessarie per conservare, nei limiti del possibile, vita e salute. Tale dovere sussiste verso se stessi, verso Dio, verso la comunità umana, verso determinate persone (es. familiari).
Ma questo dovere non obbliga, generalmente, che all’impiego dei “mezzi ordinari” (secondo le circostanze di persone, di luoghi, di tempi, di cultura), vale a dire dei mezzi che non comportano alcun carico straordinario per se stessi o per gli altri. “Un obbligo più severo sarebbe troppo pesante per la maggior parte degli uomini, e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di beni superiori più importanti” (Pio XII).
In una data situazione clinica, dunque, ciascuno ha il dovere etico di conservare la propria vita e salute mediante interventi clinicamente appropriati (o “tecnicamente proporzionati”, in base al giudizio medico del personale sanitario). Tali interventi, per il paziente (secondo il suo stesso prudente giudizio), devono anche risultare “ordinari”, cioè non comportare per lui un pesante aggravio fisico o psicologico.
La nutrizione e idratazione artificiali – se clinicamente appropriate – in linea di principio sono presidi moralmente obbligatori; ma non si può escludere in assoluto che, nella data situazione clinica, esse risultino inefficaci nella loro funzione propria (nutrire ed idratare) oppure di pesante aggravio psico-fisico per il paziente. In tal caso, cessano la loro obbligatorietà morale.
Resta invece costante e netta la condanna morale di ogni atto propriamente eutanasico (che si configura come tale per la contemporanea presenza di due fattori: uso di un mezzo atto a provocare la morte, intenzione diretta di provocare anticipatamente la morte) e di ogni forma di suicidio assistito.
Allo stesso modo, è eticamente riprovevole l’insistenza in atti medici clinicamente non appropriati (il cosiddetto “accanimento terapeutico”).
Da questi valori e punti fermi del Magistero cattolico si può ripartire, per ogni ulteriore riflessione e approfondimento, resi talora necessari dalla complessità dei casi clinici concreti, ciascuno peraltro espressione di una storia personale unica ed irripetibile.