Le Beatitudini, che aprono il celebre “discorso della montagna” sono la “magna charta” del Nuovo Testamento. Così ha introdotto papa Francesco, la catechesi dell’Angelus di stamattina, ricordando che il messaggio del Vangelo odierno (cfr Mt 5,1-12a), è “già presente nella predicazione dei profeti: Dio è vicino ai poveri e agli oppressi e li libera da quanti li maltrattano”.
Con il discorso della montagna, “Gesù manifesta la volontà di Dio di condurre gli uomini alla felicità” e lo fa, a partire dal termine “beati”, proseguendo con “l’indicazione della condizione per essere tali, e conclude facendo una promessa”. In altre parole, “il motivo della beatitudine, cioè della felicità, non sta nella condizione richiesta – «poveri in spirito», «afflitti», «affamati di giustizia», «perseguitati»… – ma nella successiva promessa, da accogliere con fede come dono di Dio”.
Il passaggio da una “condizione di disagio” per accedere al “mondo nuovo”, aprendosi al “dono di Dio”, non è un “meccanismo automatico, ma un cammino di vita al seguito del Signore, per cui la realtà di disagio e di afflizione viene vista in una prospettiva nuova e sperimentata secondo la conversione che si attua. Non si è beati se non si è convertiti, in grado di apprezzare e vivere i doni di Dio”, ha sottolineato il Pontefice.
Il Santo Padre ha quindi spiegato in cosa consista la condizione di “povero in spirito”: egli è “colui che ha assunto i sentimenti e l’atteggiamento di quei poveri che nella loro condizione non si ribellano, ma sanno essere umili, docili, disponibili alla grazia di Dio”.
La “felicità dei poveri in spirito” assume quindi due dimensioni: una “nei confronti dei beni”, l’altra “nei confronti di Dio”. Il distacco dai beni materiali si manifesta non tanto nella “rinuncia”, quanto nella “sobrietà”, nella “capacità di gustare l’essenziale, di condivisione” e di “rinnovare ogni giorno lo stupore per la bontà delle cose, senza appesantirsi nell’opacità della consumazione vorace”, per la quale “più ho, più voglio”: tutti coloro che hanno questo atteggiamento “non sono felici e non arriveranno alla felicità”.
La seconda dimensione – quella nei confronti di Dio – è nella “lode” e nel “riconoscimento che il mondo è benedizione e che alla sua origine sta l’amore creatore del Padre” ma è anche “apertura a Lui, docilità alla sua signoria, che ha voluto il mondo per tutti gli uomini nella loro condizione di pochezza e di limite”.
Il “cristiano povero in spirito” è colui il quale “non fa affidamento su sé stesso, sulle sue ricchezze materiali, non si ostina sulle proprie opinioni, ma ascolta con rispetto e si rimette volentieri alle decisioni altrui”. Il Papa ha quindi ammonito: “Se nelle nostre comunità ci fossero più poveri in spirito, ci sarebbero meno divisioni, contrasti e polemiche! L’umiltà, come la carità, è una virtù essenziale per la convivenza nelle comunità cristiane”.
In definitiva, i poveri appaiono come “coloro che tengono desta la meta del Regno dei cieli, facendo intravedere che esso viene anticipato in germe nella comunità fraterna, che privilegia la condivisione al possesso”; ciò implica “avere il cuore e le mani aperte, non chiuse”, ha spiegato Francesco aiutandosi con dei gesti -. Quando il cuore è chiuso, è un cuore ristretto: neppure sa come amare. Quando il cuore è aperto, va sulla strada dell’amore”, ha poi concluso.
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