Doppia “vittoria” per il film “La battaglia di Hacksaw Ridge” (“Hacksaw Ridge”). Trova infatti la strada per il cinema, per il grande pubblico, la storia vera del primo obiettore di coscienza negli USA, Desmond T. Doss, a lungo vessato per la sua scelta di opporsi alle armi durante il servizio militare. Il film, inoltre, segna il ritorno in grande stile di Mel Gibson, lontano dalla regia da 10 anni – “Apocalypto” (2006) – e in generale emarginato dall’industria hollywoodiana per problematiche personali virate in eccesso. L’Academy Award lo ha candidato alla prossima cerimonia degli Oscar (26 febbraio 2017) a sei riconoscimenti, tra cui miglior film, regia e attore protagonista Andrew Garfield. Una storia dunque di due “riscatti”.
La scelta della non violenza. La vicenda di Desmond T. Doss risale ai tempi della Seconda guerra mondiale. Virginia, Stati Uniti d’America, figlio di un reduce della Grande guerra – padre che influenza la crescita del protagonista perché particolarmente violento e segnato dall’orrore dei combattimenti – Desmond arriva alla soglia dell’età adulta maturando una chiara convinzione verso l’obiezione di coscienza. Nonostante si arruoli volontario tra le fila dei soldati spediti al fronte a Okinawa in Giappone, Desmond sul campo di battaglia si sottrae all’offesa gratuita dell’altro, ma non al coraggio. Dimostrerà infatti tutto il suo valore salvando le vite di 75 suoi compagni. Una felice sorpresa il film di Mel Gibson, per il ritorno di un nome di peso dell’industria cinematografica statunitense: tra i suoi film si ricordano le saghe action “Arma letale” e “Mad Max”, opere più classiche come “Amleto” (1990) di Franco Zeffirelli oppure come regista per “L’uomo senza volto” (1993), “Braveheart. Cuore impavido” (1995, 5 Oscar tra cui miglior film e regia) e “La Passione di Cristo” (2003). Non è però solamente il piacere di ritrovare un importante interprete, che ha ricostruito la propria carriera mettendo da parte derive problematiche, ma è anche il constatare la felice scommessa su una storia di pace e di coraggio, soprattutto in tempi come i nostri segnati da continui conflitti. «Quando ho sentito la storia di Desmond Doss – dichiara Gibson – il primo obiettore di coscienza a ricevere la Medagli d’Onore degli Stati Uniti, sono rimasto stupito dalla portata del suo sacrificio. Era un uomo che, nel modo più puro, disinteressato e quasi inconsapevole, aveva più volte rischiato la propria vita per salvare quella dei suoi fratelli. Desmond era un uomo del tutto ordinario che ha fatto cose straordinarie». Gibson racconta questa storia con realismo, non celando le crudezze della guerra. Del resto, anche nei suoi film precedenti c’era un ricorso (discutibile e problematico) all’esibizione della violenza e dei corpi martoriati; pensiamo a “La Passione di Cristo” e “Apocalypto”. Ma questo mostrare (in modo insistito) l’orrore si pone in contrapposizione alla scelta del protagonista Desmond, che decide di non impugnare l’arma.
Da Scorsese a Gibson, cercando l’Oscar con storie di fede. Andrew Garfield si cala con convinzione nel ruolo di Desmond T. Doss, figura significativa che ha portato sui territori aspri di battaglia la Bibbia anziché il fucile. È un momento ricorrente il vedere Desmond prendere in mano la Bibbia, pregare e rivolgersi al Signore, quando intorno a lui ci sono solo sofferenza e morte. «Si è categoricamente rifiutato – sottolinea sempre il regista – di toccare una sola arma. Desmond ha subito una persecuzione intensa per il suo rifiuto ad abbandonare la sua convinzione, si è lanciato nell’inferno della guerra armata con nient’altro che la sua fede ed è emerso come uno dei più grandi eroi di guerra dei suoi tempi». Ed è curioso che l’attore che ha interpretato Desmond sia il medesimo del film di Martin Scorsese, “Silence”, un altro uomo aggrappato alla preghiera dinanzi alla violenza, sempre lì in Giappone ma nel ‘600. La vicenda di Desmond e il film “La battaglia di Hacksaw Ridge” si configurano come un messaggio di pace che affiora tra la brutalità. Una vicenda di ieri, che parla anche all’uomo e alla donna di oggi, soprattutto a quella società statunitense ancora così (troppo) legata all’uso delle armi nella vita quotidiana.