“Oppio dei popoli”. Così veniva definita la religione. Quante volte da bambino, a scuola, ho sentito questa frase, quasi come un vaccino che ogni tanto ci veniva inalato per combattere ogni sentimento religioso nascente dentro di noi, suscitato magari da qualche nonno o nonna che di nascosto ci parlava di Dio.
Il 6 febbraio si ricordano 50 anni dal giorno tremendo in cui la cosiddetta “gioventù comunista”, in nome di una rivoluzione culturale di forte sentore cinese e ispirata a una ideologia antireligiosa, cominciava ad abbattere gli edifici di culto in Albania. Una battaglia che i comunisti avevano iniziato dal 1944.
Fino al 1967 avevano fucilato, internato, e imprigionato molti sacerdoti, laici, suore e frati in nome dell’ideologia comunista. Frutto di quegli anni sono Vincenc Prennushi e i suoi 37 compagni martiri tra cui anche una donna di nome Maria Tuci.
Ma la cronaca non sarebbe sufficiente per descrivere l’odio con cui furono abbattuti gli edifici o trasformati per uso profano, distrutte biblioteche dei conventi e del seminario, confiscati documenti e archivi, alcuni bruciati e distrutti. Insomma, dalle persone il regime passò alle cose con un unico intento: cancellare ogni segno della presenza di Dio nella società albanese, anzi cancellarne persino la memoria. Creare un uomo nuovo, autoreferenziale, anzi con il partito come unico referente, con un nuovo codice morale, una nuova trascendenza, ma questa volta orizzontale, come diceva Ernst Block nel suo principio “Speranza”: ecco cosa si voleva realizzare in questa nostra Albania.
E sarebbe ancora troppo poco, persino fuorviante, cimentarsi in constatazioni e analisi del passato senza volgere lo sguardo verso il futuro.
Una memoria che non aiuta a purificarsi per poter gettare le fondamenta per il futuro rimane retorica vittimistica se non ideologia
che ostacola la ricostruzione delle persone e delle cose. Sono passati 50 anni, di cui 24 sotto regime e 26 in libertà. Adesso per quanto possiamo dare la colpa al passato, non possiamo esimerci di guardare verso il futuro e trarre le nostre attuali responsabilità. Non possiamo più “delegare” la responsabilità al passato.
La nostra Chiesa in Albania è protesa nella storia, insieme alla Chiesa universale, a costruire il Regno di Dio. Un regno che deve venire, ma che è in atto nell’oggi della Chiesa. A volte con fatica, difficoltà, ma sempre con la fiducia che il seme cresce sia che tu dormi sia che tu sia sveglio. Nel cuore delle persone, di molti giovani, famiglie e comunità il Signore ha messo segni di speranza e desideri di pienezza. A noi tocca cogliere quei segni e annunciare la buona e la lieta notizia dell’amore di Dio per guarire i cuori feriti e incamminarsi verso il futuro.
In modo particolare urge guardare con occhi privilegiati i giovani. Essi non sanno niente di quello che è accaduto ai loro genitori e nonni nel passato comunista se non quanto apprendono sui libri di scuola o nella letteratura. Noi adulti, genitori e nonni, dobbiamo narrare le nostre esperienze, ma non per immettere rabbia o rancore dentro i loro cuori. Dobbiamo farlo per aiutarli ad apprezzare il dono della libertà e per costruire il futuro, avendo in mano questo grande tesoro. Ricordare quello ciò che è successo 50 anni fa è un modo per non dimenticare, non per vendicarsi, e per non ripetere.
In mano ai giovani c’è la potente arma dell’entusiasmo e delle forze della giovinezza.
Essi possono cambiare il mondo e renderlo migliore senza dubbio. In essi bisogna avere fiducia. Ecco perché la Chiesa che è in Albania, le nostre parrocchie e comunità, devono prepararsi al Sinodo sui giovani anche in chiave di memoria del passato per poter costruire il futuro con entusiasmo e senza pregiudizi, divisioni, conflittualità, esclusione.
In 26 anni abbiamo quasi ricostruito tutto quello che era stato distrutto dal comunismo 50 anni fa. Si tratta adesso di dare a queste strutture un contenuto. La fede cristiana ha i necessari strumenti per rendere questo processo umano, vitale e capace di trasformare le strutture e le persone. La fede ti cambia, ti dà una nuova visione delle cose, della storia, del passato e del futuro. La vita del nostro Paese ha bisogno di una Chiesa che con fede in Dio e con amore verso tutti, cristiani e non cristiani, atei o credenti, poveri o ricchi, attraverso un dialogo sincero e aperto, cammini protesa verso la speranza che una migliore società si possa costruire, un migliore mondo possa avvenire. Così la Chiesa, la fede, potrà essere gioia dei popoli e non l’oppio dei popoli.