La conversione di un mafioso è possibile e, anzi, auspicabile. Ma non basta che avvenga “nel cuore” (dove solo Dio guarda): serve una presa di distanza “pubblica” dalla mafia. Monsignor Michele Pennisi, vescovo di Monreale, intervistato dal Sir riflette sulla vicenda di Giuseppe Salvatore Riina, figlio del boss di Cosa Nostra, pure lui condannato per mafia (a 8 anni e 10 mesi), che nel periodo natalizio è tornato a Corleone (con un permesso del Tribunale) per fare da padrino al battesimo della nipote. Il vescovo è stato informato dell’accaduto in Tanzania, dove si trova tuttora in visita ai missionari e alle attività promosse dalla sua diocesi nel Paese africano. Lo raggiungiamo telefonicamente a Idodi, nella diocesi di Iringa. Mons. Pennisi è disponibile a parlare di quanto accaduto, fermo nel rimarcare la posizione della Chiesa verso la mafia e i mafiosi.
Lei ha già espresso “disappunto”, riferendosi all’operato del suo parroco, per un comportamento “censurabile e quantomeno inopportuno”. Cosa pensa di quanto accaduto?
Sono stato informato da un giornalista un mese dopo che il fatto era successo. Colto di sorpresa, ho espresso disappunto. Il parroco avrebbe dovuto avvisarmi. Lui – che è un pastore zelante, apprezzato dalla gente – si è giustificato dicendo che questo signore aveva ricevuto la Cresima a Padova. Forse, però, in questo caso è stato poco avveduto, imprudente.
Effettivamente, come ha ricordato la diocesi veneta, il figlio del boss, a Padova, aveva ricevuto la Cresima “dopo un lungo percorso di preparazione condotto in riservatezza”. Non basta?
No, non basta avere la Cresima per fare da padrino, o da madrina.
Ci vuole anche – e lo ricorda il diritto canonico – una vita conforme alla fede e all’incarico che si è assunto. La questione è proprio questa: il padrino è chiamato ad accompagnare nella fede la persona che viene battezzata o cresimata, e a essere un testimone di vita.
Nel caso in questione ci vuole una conversione. E se sulla sincerità del cammino può giudicare solo Dio, servono però anche segni esteriori di conversione. Che, in questo caso, non mi sembra ci siano stati. Lui non ha preso le distanze dalle stragi operate o comunque ordinate da suo padre. Anzi, in alcune intercettazioni figura che, a proposito delle uccisioni di Falcone, Borsellino e altri, usò espressioni pesanti e offensive per le quali non mi risulta si sia mai scusato.
Papa Francesco anche recentemente ha rivolto un appello ai mafiosi perché si convertano…
Un mafioso che si converte deve dichiarare pubblicamente che prende le distanze dalla mafia e si pente.
L’appartenenza alla mafia, sancita da una sentenza passata in giudicato, è un fatto pubblico. E pure la conversione non può essere solo intimistica, ma dev’essere pubblica, implicando un cambiamento di vita. Pensiamo al caso evangelico di Zaccheo, “capomafia” di Gerico, che incontrato Gesù decide di restituire il quadruplo di quel che aveva rubato e dare metà dei suoi beni ai poveri. Sono segni concreti di conversione. Il pentimento implica che si chieda perdono alle vittime, che si condanni la mafia e che, per quanto possibile, si cerchi di riparare al male fatto. In questo caso, però, non trovo nulla di tutto ciò. Oltretutto, bisogna prestare attenzione a come il codice mafioso interpreta la figura del padrino…
Ossia?
Per la mafia, spesso, chi svolge questa funzione ha il compito di fare entrare la persona di cui si è padrini in un circuito, che se è mafioso non è certo cristiano. Celebrando le cresime proprio a Corleone, lo scorso anno, ho parlato della distinzione tra il padrino mafioso e quello cristiano. Il primo prende sotto la sua protezione una persona, le fa fare carriera, la inserisce in una cosca mafiosa, le offre protezione e regali; il padrino cristiano, invece, è un educatore e un testimone della fede.
Già il giorno del suo ingresso in diocesi ricordò, dal pulpito del duomo di Monreale, che “la mafia non è compatibile con il Vangelo”…
Non ho fatto altro che riferirmi a documenti della Conferenza episcopale siciliana, che rimarcano come la mafia sia incompatibile con il Vangelo. Ricordo che il card. Pappalardo la definiva “l’anti-corpo mistico”. Al riguardo è chiaro pure il magistero di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e, ora, papa Francesco.
Da tempo la Chiesa italiana sta riflettendo sulla figura di padrini e madrine e alcune diocesi stanno prendendo decisioni drastiche, come la loro “abolizione” per un certo lasso di tempo, sostituendoli con i catechisti. A suo avviso, è un ruolo da rivedere? Come?
Serve una riflessione non affrettata, inserita in un contesto di discussione più vasto che riguarda l’iniziazione cristiana d’ispirazione catecumenale, scelta che ha fatto la Chiesa italiana cui bisogna dar corso, che richiede tempo ed energie. Questa prevede non solo che uno conosca la dottrina cristiana, ma pure che sia iniziato alle virtù cristiane – la fede, la speranza, la carità – e alla preghiera, a una testimonianza di vita.
Mio padre, a lungo presidente di Azione cattolica, fu padrino di almeno una ventina di giovani. Mentre era abitudine che il padrino regalasse l’orologio, lui donava il Vangelo. Ma quanti lo avevano scelto come padrino mantenevano un rapporto, venivano a confidarsi con lui. E, anche a distanza di anni, lui li consigliava e, se necessario, li rimproverava. Sì, forse potrebbero essere i catechisti a fare da padrino o madrina di chi riceve un sacramento, impegnandosi però a seguirlo anche dopo.