Nel commentare le letture liturgiche, il porporato ha invitato i malati presenti a impedire che i timori trovino terreno fertile nelle debolezze della malattia, sottolineando come spesso sia la fragilità “il principale ostacolo nella relazione con Dio e con gli altri”. E ha offerto come modello proprio l’Immacolata, che con il suo “eccomi” ha avuto un ruolo insostituibile nella storia della salvezza e della Chiesa. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che quell’“eccomi” al momento dell’annunciazione non fu pronunciato nel tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tuttavia, ha chiarito il cardinale Parolin, “in realtà non è così”. Anzi l’evangelista Luca “è molto preciso quando dice che il dialogo dell’’eccomi’ prende forma nel mezzo di molteplici esperienze problematiche”. Infatti, entrando nella casa di Davide, Maria si spoglia di sé, lasciando “tutto per fare le esperienze della povertà e dell’esclusione”. Da qui le domande del cardinale Parolin: “Non è questa la stessa esperienza che abbiamo fatto al momento della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte? Vivendo questi momenti non ci si ritrova improvvisamente spogliati, privati delle abitudini quotidiane? Quanti si sono sentiti in uno stato di povertà radicale, abitato più dal buio che dalla luce? Quanti hanno avvertito improvvisamente di essere diventati un peso per se stessi e per gli altri? Quanti si sono sentiti o sono stati trasformati in oggetti, numeri, protocolli?”.
Non solo: l’“eccomi” di Maria è stato pronunciato a Nazareth, nella “Galilea delle genti”, un territorio “che è sinonimo di morte” per il solo fatto che è considerato “lontano”: lontano da quanto conferisce identità e da quanto garantisce sicurezza, lontano dal tempio che era il cuore della speranza religiosa. E questa “lontananza” — ha evidenziato il cardinale Parolin — ha molto in comune con “il tempo della malattia, della sofferenza, della fragilità, della morte. Tutti questi momenti, infatti, sono tempi di diverse ‘lontananze’”.