Giovanni M. Capetta
“È pronto!!! Non fatevi aspettare!” “Non è il mio turno stasera!” “Sì, ce lo siamo scambiati ieri!” “Però, la lavapiatti non la carico io!” Basta essere più di tre in famiglia per non sentir come astrusi questi lamenti qui depurati degli epiteti che bonariamente possono sempre scappare… La puntualità, o la gestione delle corvée sono note dolenti eppur imprescindibili per la vita domestica di ogni nucleo famigliare soprattutto se numeroso… Ma non è solo la prevedibile e sana fatica che comporta un minimo di equa distribuzione dei compiti domestici a rendere peculiare la tavola di una casa. Se il pranzo e la pausa che prende il suo nome sono ormai per la stragrande maggioranza di noi appannaggio del mondo del lavoro, ogni sera e i fine settimana ci sono “deschi” che hanno uno spessore e un tempo di qualità differenti.
Il filosofo Feurbach ebbe a titolare una sua opera L’uomo è ciò che mangia ma, al netto di tutto il denaro e lo spazio che dedichiamo al mondo delle diete, più o meno sane, più o meno efficaci, a me pare che l’esperienza faccia dire che l’uomo è anche e soprattutto come mangia, quasi che si possa distinguere fra il “nutrirsi” e il prendere un pasto o una cena. Non c’è bisogno di risalire a Il Cortegiano o al Galateo per convenire che ci sia una sostanziale differenza fra l’ingurgitare cibi e bevande “assorbite” da un frigorifero e il sedersi a tavola in compagnia di commensali, a prescindere che siano gli intimi di tutti i giorni o quelli di un’occasione particolare. Nutrire il proprio corpo è qualcosa che nel corso della nostra vita spesso può non avere nulla a che fare con la nostra libera volontà e tanto meno col nostro gusto; saziare la fame è ancora qualcosa di diverso dal prendere il pasto insieme a qualcun altro. Del resto “convivio”, l’espressione antica ma ancora calzante per indicare il banchetto, deriva evidentemente dal verbo “convivere-vivere” insieme e ciò indica quanto sia determinante la modalità corale con cui si assumono i cibi. Da sempre l’uomo si distingue dagli animali anche per questa dimensione squisitamente culturale che assume l’azione del suo sostentarsi. Ma oggi c’è ancora traccia di questa radice etimologica nei pranzi e nelle cene delle nostre giornate? Quanto tempo dedichiamo allo stare uno di fronte all’altro a tavola? La proverbiale buona forchetta del popolo italico, la passione culinaria a tutte le latitudini e la recente corsa ai talent fra i fornelli per tutte le età, non sono opportunamente affiancate da una pari attenzione ai modi, agli stili, ai tempi, “conviviali” appunto, del nostro mangiare. Credo che questionari ed indagini sociologiche potrebbero darci esiti infausti…, eppure ci sono frontiere di civiltà che non dovrebbero essere oltrepassate. Se anche non usate tutti i giorni la tovaglia (che gli esperti dicono unisca anche visivamente i commensali) e vi affidate alle più comode e lavabili tovagliette (che, però, è come se isolassero i partecipanti in un piccolo arcipelago di monadi da nutrire!), quello che conta è darsi un tempo comune; sapersi aspettare tutti, magari arrivare anche qualche secondo prima che la pasta sia nei piatti… e magari riuscirci anche se si è adolescenti… E poi i telefonini? Possono restare spenti o sconnessi fino alla frutta? Su questo gli scienziati discutono, pare che si possa digerire ugualmente anche senza essere interrotti da messaggi o chiamate, ma ancora non ci sono prove certe… E poi chi serve chi? Un ordine di precedenza è retaggio di un passato “gerarchico” che la famiglia non può e non deve rimpiangere o vi sono precedenze e gesti di cavalleria che dovrebbero essere ancora tramandati? La tavola da pranzo è davvero metafora della vita intera: un’arena in cui si può letteralmente sgomitare se lo spazio è poco e soffrire per trovare visibilità e diritto di parola. Un posto in cui si può dare tutto per dovuto, oppure una palestra in cui vivere la gratitudine, un momento da trascinare perché tutti dobbiamo mandar giù qualcosa (possibilmente senza avanzare quel che si ha nel piatto, cosa tutt’altro che scontata) oppure un’occasione per vivere un tempo propizio, un κάίρός quotidiano a cui affidarsi per ritrovare il desiderio di raccontare e raccontarsi, ascoltare, commuoversi ridere e ritemprare lo spirito prima ancora del corpo.