Massimiliano Padula
Siamo nell’era del post. Dopo la post-modernità e la post-verità arriva il post-Sanremo. È innegabile, infatti, che l’ultima edizione del Festival della canzone italiana abbia rappresentato uno spartiacque, un punto di non ritorno su cui vale la pena spendere qualche riflessione. Anzitutto la conduzione. La scelta del duo Conti-De Filippi ha consacrato definitivamente il tempo della tivù indistinta e delle appartenenze a questa o a quella emittente. Viviamo nell’epoca del sincretismo mediale dove le identità aziendali lasciano il passo all’unico criterio che conta: l’ascolto. E di ascolti Sanremo 2017 ha fatto man bassa con una media delle cinque serate che ha superato il 50% di share. Un altro dato che legittima il passaggio al post fa riferimento alle vicende dei cantanti in gara. I giovani provenienti dai talent hanno ormai scalzato i mostri sacri della tradizione (che escono di scena inesorabilmente) evidenziando come i music show stiano diventando una delle strade privilegiate per affermarsi nel mercato.
Un’ulteriore sottolineatura riguarda il podio che, mai come quest’anno, è stato il riflesso di alcune tra le istanze più urgenti della contemporaneità.
Se Ermal Meta è stato testimonial di multiculturalismo e non violenza, Fiorella Mannoia con la sua preghiera laica, ha condiviso lo smarrimento e le difficoltà esistenziali dell’oggi. Discorso a parte per il vincitore. Su Francesco Gabbani si sta scrivendo di tutto. La sua Occidentali’s Karma è riuscita a imporsi nell’opinione pubblica a tal punto da diventare oggetto delle interpretazioni più disparate.
Quello che è certo è che si tratta di una filastrocca orecchiabile condita da una messa in scena divertente (il balletto dello scimmione) e da una promozione integrata e incisiva. Gabbani (e il suo entourage) ha avuto il merito di capire che l’arte non è più delimitata ma si ibrida sempre più con altri linguaggi. Per questo la sua canzone sta diventando una sorta di manifesto post-moderno che racconta di internet e di filosofie orientali, di teorie evoluzioniste e di corpi asettici senza un filo logico ma in modo divertente. Ed è proprio questo il valore aggiunto di un brano che, al di là del suo valore artistico (lo dimenticheremo abbastanza presto), è riuscito a emozionare, a rallegrare e, quindi, a far parlare di sé.
Il resto è stata ordinaria amministrazione. Come ogni prodotto Rai che si rispetti da qualche tempo a questa parte, anche Sanremo ha avuto il suo spazio gay. Mentre tutti i riflettori erano indirizzati su Tiziano Ferro e Ricky Martin, è stato Mika il prescelto per il tradizionale momento di propaganda, poco significativo eppure abbastanza considerato tanto da far dire a Carlo Conti (in conferenza stampa a chi gli chiedeva spiegazioni): “Chi sono io per giudicare?”. Un ultimo pensiero va alla Rai che da 67 anni si sforza di rinnovare lo stesso format. Quest’anno il risultato è stato apprezzabile. Lo spettacolo è stato godibile grazie anche a una regia straordinaria e alla possibilità di rivedere frammenti del Festival attraverso i social network o la piattaforma digitale Rai Replay. Insomma, passano i decenni, passano i cantanti, ma Sanremo continua a essere una certezza nonostante uno scenario televisivo sempre più indefinito. La sfida dei futuri festival sarà proprio questa: integrarsi sempre più nelle nuove pratiche e nei nuovi formati di una (post)televisione sempre meno medium di massa e sempre più caratterizzata da una visione personale e attiva.