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Rohingya, la fuga senza fine

Miela Fagiolo D’Attilia

Preghiamo per tutti i migranti, i rifugiati, gli sfruttati che soffrono tanto… Vorrei pregare con voi oggi in modo speciale per i nostri fratelli e sorelle Rohingya cacciati via dal Myanmar”. Una delle più esigue minoranze che compongono il Paese del Sud-est asiatico, perseguitata da anni con molti uomini e donne “torturati, uccisi semplicemente per portare avanti le loro tradizioni, la loro fede musulmana”. Così Papa Francesco ha ricordato al mondo il dramma dei Rohingya nella Giornata mondiale contro la tratta di persone (8 febbraio scorso).
Nella provincia birmana di Rakhine affacciata sul Golfo del Bengala, su quasi quattro milioni di persone ne sono rimaste circa 800mila, senza diritto di cittadinanza in base ad una legge del 1982 che le considera “immigrati clandestini”, senza cittadinanza, diritti civili né possibilità di avere più di due figli. La loro presenza nelle terre dell’Akran risale al VII secolo e fino all’invasione da parte dei Birmani (tra il 1784 e il 1826) è stata di pacifica coabitazione con altre etnie della zona. Le persecuzioni sono iniziate dopo la dichiarazione di indipendenza della Birmania dall’impero britannico nel 1948, quando questa minoranza non è stata riconosciuta tra i 135 gruppi etnici nazionali. A causa dell’escalation di violenze degli ultimi quattro anni (ufficialmente motivate dalla caccia ai terroristi), molte famiglie poverissime ed emarginate dallo Stato, sono state costrette ad abbandonare gli insediamenti nel porto di Sittwe, capitale della provincia di Rakhine, per andare verso l’estrema punta meridionale del Bangladesh musulmano.

Secondo l’organizzazione Human Rights Watch, 200mila Rohingya hanno trovato rifugio in campi profughi in Bangladesh o al confine con la Thailandia, mentre altri 100mila sono stati bloccati in campi controllati dal governo (in cui le organizzazioni internazionali non possono entrare).

Tra le cause delle campagne contro i Rohingya c’è il fatto che la zona costiera del Rakhine è al centro di interessi strategici tra India e Cina per la posizione geografica, da una parte di sbocco sul mare del gigante cinese e dall’altra di porto di collegamento per gli scambi navali con il subcontinente indiano. Forti interessi economici nella zona sembrano alla base degli scontri con i buddisti (fortemente maggioritari con l’etnia Bamar) e degli episodi di violenza che hanno decimato la popolazione di origine araba presente in tutta la regione circostante.

A pagare il prezzo di quella che è una vera e propria pulizia etnica sono i più fragili. All’inizio dello scorso gennaio l’immagine del cadavere del piccolo Mohammed Shohayet, morto durante la fuga con la sua famiglia verso il Bangladesh, ha riacceso l’attenzione del mondo sullo sterminio di quello che è un popolo perseguitato fino al genocidio.Chiamati i “Rom del Sud–est asiatico”, sono fuggiti in 50mila negli ultimi mesi dalle loro terre, spinti da una operazione militare su larga scala nel Nord-est del Myanmar. Lo hanno raccontato gli sfollati nei Paesi vicini, molti dei quali hanno perduto nel viaggio a piedi e con mezzi di fortuna, uno, più o addirittura tutti i familiari. Facili prede di trafficanti o destinati a morire di stenti, questa gente senza terra che si muove verso le frontiere è segnata dalla diaspora e dagli innumerevoli lutti di familiari e amici scomparsi nel nulla. Un genocidio che si sta consumando sotto gli occhi del mondo, malgrado il ruolo nel governo del neo premier Htin Kyan della leader Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace (1991) e icona globale di democrazia.

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