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Rifiuti: la nuova sfida è andare verso un’economia circolare

Gigliola Alfaro

Sono passati 20 anni da quando in Italia il decreto legislativo 22/97, il cosiddetto “Decreto Ronchi” sui rifiuti, ha cambiato i modelli di gestione dei rifiuti e ha attuato una riforma organica e sistemica, recependo e coordinando tre direttive europee sui rifiuti, sui rifiuti pericolosi e sugli imballaggi. Quanto cammino è stato fatto da allora? E quali sono le sfide che ancora ci aspettano in un settore che incide fortemente sui territori? Lo abbiamo chiesto a Matteo Mascia, coordinatore del progetto etica e politiche ambientali della Fondazione Lanza.

“I dati diffusi dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) mostrano un cambiamento in positivo nella gestione dei rifiuti, che ha messo al centro, secondo le direttive europee, il recupero e il riciclo e come ultima possibilità la discarica. Tutto ciò ha richiesto anche una trasformazione culturale”.

Nel 1997 veniva smaltito in discarica l’80% dei rifiuti urbani (21,3 megaton, Mton) con una raccolta differenziata che era al di sotto del 9%; nel 2015, nonostante i rifiuti urbani prodotti siano aumentati di quasi 3 Mton, quelli smaltiti in discarica sono scesi al 26% (7,8 Mton), la raccolta differenziata, al 9% nel 1997, è arrivata al 47,6% nel 2015 e il riciclo/recupero di materia dei rifiuti speciali è aumentato da 13 Mton a 83,4 Mton (dati Ispra). “C’è stato un miglioramento – sottolinea Mascia – anche perché il decreto ha permesso di creare una filiera nello smaltimento dei rifiuti, ad esempio attraverso il Conai (Consorzio nazionale imballaggi), che ha svolto un ruolo fondamentale nell’ottica di favorire il progressivo aumento della raccolta differenziata”.

Non mancano, però, le criticità. “C’è un’Italia divisa in due – avverte l’esperto -. Al Nord abbiamo migliori risultati, mentre al Sud sono ancora molto negativi.

L’Ispra ci dice che cinque Regioni del Sud sono molto al di sotto agli standard richiesti per la raccolta differenziata: Basilicata (31%), Puglia (30%), Molise e Calabria (25%), Sicilia (13%).

Essendo la media italiana del 47%, vuol dire che ci sono Regioni virtuose che superano il 60% e altre che sono molto indietro. Città, come Roma e Napoli, scontano molti ritardi nella differenziata, mentre altre stanno molto avanti”.

Dunque, “non c’è stato uno sviluppo uniforme sul territorio italiano per la raccolta differenziata e per la politica di gestione dei rifiuti”. Dietro tutto questo “c’è un insieme di fattori, come una scarsa attenzione e poca intelligenza da parte degli amministratori o un problema della criminalità organizzata. Si tratta, allora, di capire come si può fare una politica seria in questo settore”.

Secondo un’indagine Ipsos, promossa da Conai, dal titolo “1997-2017. 20 anni dal Decreto Ronchi: gli italiani e la raccolta differenziata”, gli italiani hanno cominciato ad avere un approccio più responsabile sul tema, con il 91% che fa abitualmente la raccolta differenziata: “Indubbiamente molte persone la fanno perché è obbligatoria, ma anche grazie a un percorso educativo sul tema portato avanti nelle scuole che ha avuto riflessi benefici pure a livello familiare”.

Per quanto riguarda i rifiuti speciali, “c’è una buona percentuale che viene recuperata come materia prima seconda (materia prima derivante da riciclo ndr). Nel 2014 su 134 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui il 94% non pericolosi, 85 milioni sono stati sottoposti a operazioni di recupero di materia e di energia”. Il resto finisce in discarica o negli inceneritori (diffusi più al Nord), nel rispetto della normativa, ma

“il problema è soprattutto nello smaltimento illegale.

Non solo nella Terra dei fuochi, ma anche in molte altre realtà del Nord, la malavita organizzata gestisce questo business: lo smaltimento dei rifiuti speciali è molto costoso e a volte le aziende cercano delle scorciatoie”.

Rispetto all’Unione europea qual è la situazione dell’Italia? “La direttiva europea – risponde Mascia – dispone di raggiungere il 60% di riciclo dei rifiuti urbani per il 2025 e il 65% entro il 2030: noi non siamo lontani da questo obiettivo, almeno per quanto riguarda gli imballaggi”. Se ci confrontiamo con gli altri Paesi aderenti all’Unione europea, “i dati non sono completamente comparabili, perché altrove non si parla di raccolta differenziata, ma di riciclo e compostaggio”. In generale, “la media europea (dati 2014) di conferimento in discarica è 28%, mentre in Italia intorno al 26% (dati 2015). È molto differente, però, la gestione dei rifiuti nei Paesi dell’Ue: ad esempio, quelli appartenenti all’Europa centrale conferiscono in discarica oltre il 50% dei rifiuti. La media europea di rifiuti che finisce in inceneritore è del 27%. Quando parliamo di riciclaggio, assimilabile alla raccolta differenziata, ci attestiamo intorno al 45%.

L’Italia è quindi in linea con il resto d’Europa, anche se con un Nord molto più virtuoso e un Centro Sud e Isole più problematici”.

Oggi, prosegue l’esperto, “le nuove direttive europee vanno verso un’economia circolare, per far rientrare i rifiuti nel sistema economico come materia prima seconda, creando nuovo sviluppo per le imprese e occupazione. Questa è la sfida che abbiamo di fronte.

Su tale versante l’Italia ha già attività interessanti: ci sono 6mila imprese che si occupano di green economy, che considera i rifiuti come risorsa, con circa 155mila addetti e un fatturato annuo di circa 50 miliardi di euro. Sono piccoli numeri, ma in crescita, che segnalano un salto di qualità”.

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