Bisogna tornare al 2010 per trovare una crescita dell’Italia superiore a quella registrata nel 2016. I conti ufficiali dell’Istat arriveranno il prossimo 1° marzo, ma le stime provvisorie diffuse nei giorni scorsi sembrano già un punto di riferimento solido, tanto più che sono in linea con quelle elaborate a livello europeo e confermate a livello internazionale dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico).
Dunque siamo in piena ripresa?
Questo purtroppo non si può dire e del resto l’esperienza concreta delle persone e delle famiglie coglie in qualche caso segnali positivi che però convivono con le devastazioni provocate dalla Grande Crisi.
Se si vanno a esaminare i numeri, l’impressione è quella della classica bottiglia mezza piena e mezza vuota. Nel 2016 il Pil (Prodotto interno lordo), la grandezza che convenzionalmente viene usata per misurare la ricchezza prodotta, è aumentato nel nostro Paese dello 0,9%. Un dato superiore allo 0,8 previsto dal governo e ai risultati degli ultimi anni che, non va dimenticato, hanno conosciuto momenti di vera e propria recessione (il contrario della crescita). A dire il vero il balzo imprevisto dalla produzione industriale a dicembre (+6,6% rispetto a dicembre 2015), aveva fatto sperare qualcosa in più di questo 0,9, anche tenendo conto che si tratta di un dato grezzo e che, depurato dagli effetti del calendario (i giorni lavorativi non sono gli stessi ogni anno e questo incide sul calcolo del tasso di crescita), diventa un 1% pieno.
Grezzo o depurato, il dato della nostra crescita ci colloca comunque nettamente in coda nella classifica degli Stati europei. Anche la Grecia cresce più dell’Italia.
Certo, il Pil non è l’unico criterio per valutare lo stato di salute economico di un Paese, ma il confronto con la media Ue (+1,8%) dice in modo inequivocabile che un po’ di crescita c’è, ma è veramente troppo poca, soprattutto rispetto all’obiettivo di recuperare progressivamente la strada perduta con la crisi. Né le previsioni per il 2017 (che per l’Italia non vanno oltre l’1-1,1%) autorizzano al momento la speranza di un cambio di passo in assenza di interventi di politica economica all’altezza della situazione.
Entro il 10 aprile il governo dovrà presentare il Documento di economia e finanza e lì si vedranno le prime indicazioni.
Ma l’anno da poco iniziato si presenta pieno di insidie, a cominciare dalle incertezze del quadro politico, con le elezioni in Francia, Olanda e Germania, per non parlare della confusione di casa nostra e delle incognite globali, da Trump alla Gran Bretagna. L’Italia, per giunta, è nuovamente alle prese con le ulteriori misure di bilancio richieste dalla Ue ed è particolarmente esposta, avendo un debito pubblico elevato, alle ripercussioni di un’eventuale risalita dei tassi di interesse (più alti sono questi tassi, più alti sono gli interessi che lo Stato deve pagare sul suo debito) e di una eventuale riduzione delle azioni di sostegno alle economie dell’Unione, finora messe in opera dalla Banca centrale guidata da Mario Draghi. Eventualità che sarebbero la paradossale conseguenza della più robusta ripresa degli altri Paesi europei e della reazione dei fautori delle politiche di austerità finanziaria, ancora non paghi dei danni provocati da un’ideologia economica che ha sacrificato tutto sull’altare degli equilibri di bilancio e sùbito preoccupati di ingabbiare il dinamismo che si è finalmente creato.
Ma si tratta di una partita tutta da giocare e in cui i fattori politico-elettorali a cui si accennava avranno un ruolo determinante.
Questa considerazione non solo non assolve il nostro Paese ma rende semmai più acute le sue responsabilità. Non possiamo permetterci di perdere il treno della ripresa. La questione non è un decimale di Pil in più o in meno, c’è bisogno di uno scatto in avanti e di scelte non ordinarie. Persino l’Ocse raccomanda di potenziare gli investimenti pubblici (crollati del 30% dall’inizio della crisi) e sostiene che ci siano i margini finanziari per farlo. Il problema più grave e urgente resta comunque la disoccupazione, in particolare quella giovanile. Quanto è stato fatto negli ultimi due anni non è stato sufficiente per aggredirla in modo sostanziale. Addirittura – osserva il Centro studi Confindustria elaborando dati Istat – “le informazioni disponibili per la seconda parte del 2016 indicano che la risalita dell’occupazione ha subìto un arresto”. Finora l’unica misura che è sembrata in grado di smuovere le acque è stata quella degli sgravi contributivi per le aziende che assumono. Certo, rappresenta un costo rilevante per le casse pubbliche. È una questione di priorità.