“A ormai quasi quarant’anni di distanza, la tragedia di Moro non ha finito di far discutere. L’impressione di una verità monca e parziale incombe sui fatti. E quindi non permette di trovare una pacificazione della memoria”. Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, è autore del recentissimo “Aldo Moro: lo statista e il suo dramma” (Il Mulino), monumentale biografia dello statista nato a Maglie nel 1916, cresciuto nella Fuci, padre costituente, poi segretario della Democrazia cristiana, parlamentare, più volte ministro e presidente del Consiglio, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e ucciso dai terroristi, dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio seguente, quando fu trovato moto in una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a due passi dalla sede della Dc. Nel rapimento, in via Fani, persero la vita gli agenti di scorta Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.
Tra dubbi e mancate verità. La tragedia di Moro ha segnato uno spartiacque sia nella lotta al terrorismo sia, e più ancora, nella storia politica italiana. Ma sui fatti di quei giorni non c’è ancora piena luce. “È vero che recentemente si è sviluppata una pubblicistica che nega risolutamente che ormai – dopo cinque processi e tre commissioni di inchiesta parlamentari – ci siano ancora misteri. Ma puntualmente”, segnala Formigoni, “una nuova commissione parlamentare sta lavorando e sta facendo emergere ancora una serie di domande e di dubbi sulle verità parziali e convenzionali che sono state costruite”. Lo studioso di Moro osserva:
“I dubbi non costituiscono verità alternative, naturalmente, e non bastano indizi o tracce per costruire teoremi complessi e a volte poco credibili. Resta l’impressione che la reticenza delle Br copra qualche aspetto indicibile della drammatica vicenda”.
“Uno sguardo più comprensivo”. Naturalmente la vicenda umana e politica di Aldo Moro non si può limitare ai 55 giorni compresi tra il rapimento e la morte, che peraltro restano essenziali per comprenderne la figura. “Quello che personalmente ho provato a evidenziare, nel quadro di una ricostruzione biografica di tutto l’itinerario esperienziale di Moro, è che occorre soprattutto uno sguardo molto più comprensivo e attento nei confronti del suo comportamento. Nell’opinione pubblica – afferma Formigoni – si è consolidata un’immagine del Moro piagnucoloso e familista che cerca solo la salvezza personale. Rileggendo i suoi scritti (quelli sopravvissuti all’operazione di selezione delle Br e alle successive intricate vicende),
possiamo invece oggi ipotizzare che egli tentasse semplicemente di continuare a fare politica
anche nelle intricate e drammatiche condizioni del ‘carcere del popolo’. Cercando una via stretta, che contemperasse la propria salvezza e la continuazione di un progetto politico di cambiamento, senza mettere in discussione la faccia dello Stato, anzi recuperandolo dall’abisso del fallimento del 16 marzo”. Nessun cedimento, dunque, nessuna “sindrome di Stoccolma”, “nessuna discrasia rispetto alle idee-guida di una vita, si possono leggere nel suo calvario dei cinquantacinque giorni”.
Aveva colto i segnali di crisi. Ma cosa ha rappresentato la tragica fine di uno dei principali uomini di Stato dell’Italia del Novecento? “È sempre più chiaro con il passare degli anni che la morte di Moro abbia un senso simbolico importante di cesura nella storia repubblicana”, sintetizza Formigoni. “Lo statista pugliese aveva colto acutamente i segnali di una crisi incombente della vicenda politica democratica italiana. La società stava profondamente cambiando (diveniva ‘orizzontale’, come egli notava dopo il referendum sul divorzio) con i suoi nuovi soggettivismi e individualismi. Il mondo vedeva l’indebolimento del bipolarismo della guerra fredda e la crisi del fordismo, da cui si stava uscendo con l’iniziale incubazione di quello che oggi chiamiamo globalizzazione”. I partiti di massa “cominciavano a mostrare limiti di legittimazione.
Moro viveva drammaticamente la difficoltà di ricomporre queste dinamiche in un quadro riformatore, in quella che aveva delineato come ‘terza fase’,
con un dialogo con il Partito comunista italiano che non intendeva costituire accordi di governo, ma certo un processo di legittimazione reciproca che desse spazio a un nuovo circuito di integrazione democratica della società italiana”. La brusca interruzione del delitto “lasciò la democrazia italiana priva del suo punto di mediazione ed equilibrio più sperimentato, paziente, determinato”. Formigoni conclude: “È quindi comprensibile come dopo quel passaggio si aprisse una lunga transizione, fino all’esaurimento poco glorioso del sistema politico della prima fase della Repubblica”.
0 commenti