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Sud Sudan. Il vescovo Tombe (Caritas): “Situazione catastrofica, stiamo aspettando Papa Francesco”

Patrizia Caiffa

“È una situazione catastrofica: bisogna riportare la pace nel Paese ed agire subito, prima che sia troppo tardi”: è venuto a Roma proprio per chiedere aiuti urgenti a Caritas internationalis monsignor Erkolano Lodu Tombe, vescovo di Yei e presidente di Caritas Sud Sudan. Il suo Paese, indipendente dal 2011, è nuovamente scosso da una guerra civile che contrappone l’esercito fedele al presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e le forze dell’opposizione dell’ex vice presidente Riek Machar, di etnia Nuer. La guerra ricominciata nel 2013 è la causa di una gravissima carestia con 1 milione di persone che già soffrono la fame, 270mila bambini denutriti, 5 milioni di sfollati all’interno e all’esterno del Paese. Complessivamente circa 5,1 milioni di persone hanno urgente bisogno di aiuti umanitari. I vescovi delle sette diocesi sud-sudanesi hanno scritto una lettera pastorale lo scorso 23 febbraio chiedendo urgentemente la pace. La Cei ha destinato 1 milione di euro all’emergenza, da ripartire tra la Caritas e le altre organizzazioni umanitarie. In questo scenario si colloca l’annunciata visita di Papa Francesco insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate della Chiesa anglicana. “Può darsi che si farà a ottobre”, annuncia monsignor Tombe: “Voglio dire a Papa Francesco che lo stiamo aspettando”.

Ci racconta la situazione nel suo Paese?

È catastrofica. Non c’è cibo, non c’è pace e la gente soffre. Quando una guerra torna la distruzione è molto rapida ma ricostruire ciò che è stato distrutto richiede molto tempo. La situazione è brutta, non c’è stabilità. C’è una terribile crisi economica, la gente è affamata, non solo nelle zone degli scontri. Anche nelle città non circola denaro, i prezzi dei prodotti al mercato sono altissimi e la popolazione non può permettersi di comprare cibo. Non ci sono medicine, le persone si ammalano. I bambini non possono andare a scuola perché i genitori non possono pagare gli studi. Ovviamente la situazione peggiora nelle zone colpite dalla guerra. Lì la gente è impaurita ed è costretta a fuggire. Ci sono gruppi che attaccano anche i civili, danno fuoco ai villaggi, uccidono le persone nelle proprie case. Moltissimi si sono rifugiati in Uganda, Congo, Sudan e Etiopia. Altri sono sfollati vicino alle città, come a Juba. Il governo ha dichiarato la carestia in Sud Sudan due settimane fa ma è già troppo tardi. Doveva agire prima, non ora che la situazione è peggiorata. Ci vorrà tempo per raccogliere i fondi necessari, prendere le decisioni politiche.

La gente rischia di morire prima che arrivino gli aiuti effettivi: cibo, medicine, acqua potabile.

La sua diocesi, nello Stato di Yei River, è una delle zone più colpite dagli scontri. Cosa sta succedendo?

Da luglio scorso sono ricominciati all’improvviso i combattimenti e la gente ha cominciato a fuggire e a riversarsi nelle città. Nella mia zona ci sono più di 100mila persone intrappolate in città, a Yei, perché le strade sono chiuse: non possono uscire e non possono ricevere aiuti, se non per via area. Anche fuori città si soffre molto, non solo per la fame ma anche per la mancanza di farmaci, acqua potabile ed educazione. Vivono costantemente nella paura perché ci sono scontri tra le opposte fazioni, per cui molti fuggono verso il Congo o verso Juba. A settembre sono stati distribuiti aiuti per tre mesi, ma ora sono terminati. La comunità internazionale è presente e sta provando a rispondere all’emergenza. Come Chiesa cerchiamo di stare accanto alla gente con i nostri sacerdoti, le suore.

Ma se non si agisce in tempi brevi diventerà sempre più catastrofica, perché la guerra non si ferma.

Qual è il vostro appello alle parti in causa e alla comunità internazionale?

Ci rivolgiamo alle persone coinvolte perché negozino, dialoghino e non risolvano i problemi politici solo attraverso lo scontro. Se la guerra finisce le persone possono essere in grado di provvedere a se stesse. Ora non possiamo più coltivare la terra, non c’è sicurezza, la gente fugge. Siamo qui per fare un appello a tutte le persone di buona volontà perché ci diano tutto l’aiuto possibile. Stiamo spiegando la situazione alla confederazione delle Caritas perché possano decidere in che modo aiutarci. Chiediamo un’assistenza umanitaria d’emergenza che sia in grado di raggiungere tutti i villaggi, in ogni angolo del Paese, non solo nelle città: abbiamo bisogno di cibo, medicine, acqua potabile e di una azione di advocacy per la pace.

Papa Francesco vorrebbe venire in Sud Sudan insieme all’arcivescovo di Canterbury Welby. C’è una data? Quale impatto potrebbe avere la sua visita?

Abbiamo detto al Papa che può venire in ottobre, non prima, ma il giorno preciso non è stato ancora fissato. Anche la presenza dell’arcivescovo Welby non è ancora ufficiale. La visita avrebbe un grande impatto, soprattutto sulla fede e la speranza della popolazione del Sud Sudan, per dire alle persone che non sono sole: il Papa è con loro. Potrebbe anche contribuire alla pace se le parti in conflitto lo ascolteranno. Sono cristiani, dovrebbero almeno ascoltarlo. Altrimenti la guerra durerà a lungo.

Voglio dire a Papa Francesco che lo stiamo aspettando. Tutta la popolazione sud-sudanese lo aspetta. E spero che nessuno blocchi la sua visita. È la nostra speranza.

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