Nella ripulsa sempre più diffusa verso un’economia in cui il giusto rigore è stato spesso sostituito da una visione angusta, in cui i vincoli finanziari diventano una schiavitù e la crescita, quando c’è, non riesce a ridurre le disuguaglianze, sul banco degli imputati c’è innanzitutto lui, il Prodotto interno lordo, meglio noto con l’acronimo Pil. Inventato da un premio Nobel americano nel 1934, da indice per misurare i beni e i servizi prodotti da un Paese, il Pil è diventato una sorta di criterio generale di giudizio. In nome del Pil, gli Stati vengono promossi e bocciati; ogni minima variazione percentuale di questo indice viene scrutata come un oracolo da cui si può ricavare lo stato di salute di una Nazione. Eppure, come ebbe a dire Bob Kennedy in un memorabile discorso all’università del Kansas, il 18 marzo di ben quarantanove anni fa, il Pil “misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati i tentativi, anche molto seri e autorevoli, di riportare il Pil in una dimensione meno totalizzante, integrandolo con altri indicatori. Ma non si è arrivati a incidere sulle scelte di politica economica. Adesso l’Italia ci prova.
La novità è contenuta nella riforma della legge di bilancio approvata la scorsa estate, in cui si stabilisce che il Documento di economia e finanza (Def), il testo con cui il governo anticipa le linee di politica economica e finanziaria, sia affiancato da alcuni “indicatori di benessere equo e sostenibile” (Bes).
Il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, in questi giorni ha confermato che la novità sarà attivata già con il Def di quest’anno, che sarà presentato a termine di legge il 10 aprile.
“L’Italia – ha detto al Sir Federico Giammusso, consigliere del ministro dell’Economia e delle finanze e presidente del Comitato per gli indicatori del benessere equo e sostenibile – è il primo Paese avanzato a compiere questo passo. In molti Paesi c’è stato un dibattito su come integrare il Pil con altri indicatori, in alcuni di essi il dibattito è stato anche incorporato a livello istituzionale attraverso relazioni o rapporti, ma nessuno finora ha avuto il coraggio di prendere degli impegni programmatici sulla base di quegli indicatori”. Indicatori che, secondo le parole del ministro Padoan, saranno in numero limitato “perché non è un esercizio tecnico-accademico, è qualcosa che cambia la prospettiva della politica economica”. Gli indicatori selezionati – spiegano al Sir fonti del ministero – riguardano tre aree: disuguaglianze, ambiente e lavoro. “Un numero limitato di indicatori è una scelta di serietà – osserva Giammusso – perché se ne venissero individuati decine e decine sarebbe come non averne individuato nessuno, non si riuscirebbe a spostare il focus del dibattito di politica economica”. E inoltre “va tenuto presente che si tratta di un’operazione complessa dal punto di vista tecnico”. Non ci si limita infatti a registrare l’evoluzione storica e l’andamento tendenziale, ma “bisogna cercare di prevedere l’impatto che su questi indicatori avranno le scelte di politica economica indicate in termini generali dal Def e poi concretizzate nella legge di bilancio”. “Alcuni indicatori restano fuori non per un’esclusione voluta, ma perché è impossibile prevederne in modo credibile l’impatto”.
Per l’individuazione dei nuovi indicatori di Bes la legge di riforma del bilancio ha previsto l’istituzione di un comitato presieduto dal ministro dell’Economia, con la partecipazione del presidente dell’Istat e del governatore della Banca d’Italia (o di loro delegati) e di due esperti esterni.
Il comitato che ha lavorato concretamente in questi mesi è composto da personalità di assoluto rilievo nel settore, a cominciare dal presidente Giammusso che rappresenta il ministro. Per l’Istat c’è Roberto Monducci, per la Banca d’Italia Andrea Brandolini; gli esterni sono Luigi Guiso, professore di economia all’Einaudi Institute, ed Enrico Giovannini, che tra i tanti titoli ha anche quello di portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), che riunisce oltre 150 istituzioni e reti della società civile. Naturalmente è un discorso che non parte da zero. In Italia, per esempio, è dal 2013 che l’Istat elabora annualmente un ampio e accurato rapporto sul benessere equo e sostenibile (la quarta edizione è stata presentata nel dicembre scorso). Se si allarga lo sguardo a livello internazionale si incontrano subito i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, ma anche il progetto Better Life Index (Bli) avviato nel 2011 dall’Ocse. Per non parlare del contributo che arriva da centri di ricerca indipendenti e da soggetti della società civile. Il problema è come tutto questo riesca poi a intercettare le effettive decisioni dei governi. Il tentativo italiano in questa direzione è solo un primo passo e una scommessa tutta da verificare. Ma almeno per una volta arriviamo prima degli altri.