“Il problema è la violenza, non la radicalizzazione. San Francesco era radicale ma non era violento. Ognuno è libero di andare ai fondamenti della sua religione e di applicarli in modo anche rigoroso. Il punto quindi non è la religione o la sua radicalità ma è il credere di risolvere le questioni attraverso la violenza e il terrorismo”. Prima d’iniziare l’intervista, Pasquale Ferrara, ambasciatore italiano in Algeria, ci tiene subito a fare questa precisazione. Diplomatico di carriera, docente di diplomazia alla Luiss di Roma e all’Istituto universitario “Sophia” di Loppiano, ha dedicato un libro a “Il mondo di Francesco. Bergoglio e la politica internazionale”. Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dall’attacco a Londra rivendicato da Daesh e in vista del viaggio apostolico di papa Francesco al Cairo.
Il Papa che ruolo gioca nel disarmare le intenzioni?
Un ruolo fondamentale. Perché è la vera contro-narrazione all’estremismo violento affermando più volte e con determinata convinzione che le religioni sono parte della soluzione e non parte del problema.
Un esempio concreto lo ha dato in occasione del viaggio a Lesbo. I governi erano bloccati, incapaci di fare alcunché. E lui è andato con i patriarchi di Grecia e Costantinopoli per dire che le Chiese sono prossime a chi è in difficoltà, sono la voce di chi non ha voce. Il loro compito non è quello di risolvere il problema ma di segnalare una priorità di carattere umanitario e di civiltà.
E questo viaggio del Papa al Cairo, nel suo rapporto con l’Università di Al Azhar dopo anni di allontanamento e gelo, che valore ha?
Ha un valore enorme innanzitutto dal punto di vista simbolico. In gran parte del mondo arabo e islamico si guarda ad Al Azhar come ad un punto di riferimento anche di carattere dottrinale. È vero che l’Islam non ha un’organizzazione gerarchica né tantomeno ha una struttura piramidale per quanto riguarda i precetti religiosi. Però l’autorità di Al Azhar è riconosciuta in tutto il mondo islamico sunnita. Mostrare che il Papa cattolico si reca nel più autorevole centro della teologia islamica sunnita ha un valore enorme. Il cristianesimo viene percepito in questi Paesi come il volto religioso del liberalismo economico.
Francesco però è un Papa che allarga gli orizzonti.
Intanto perché è un Papa non europeo, e poi dà un messaggio di universalità al cristianesimo e indica alle religioni il compito di diffondere questa universalità con una identità collettiva.
In che senso?
Nel momento in cui cerchiamo di proteggerci e di rintanarci nelle nostre nazioni e piccole patrie, le religioni possono fare molto per aprire porte e finestre e dire che la risposta non è la chiusura. La risposta è metterci insieme perché le questioni che dobbiamo affrontare sono immense e comuni.
Un processo che si sposa con il tentativo intrapreso da tempo dall’università di Al Azhar di presentare un Islam illuminato, capace di rispondere alle sfide del tempo, prima tra tutte la questione del terrorismo. È così?
Noi, alle volte, dimentichiamo che quando si parla di estremismo violento ma anche di terrorismo cosiddetto islamico, le prime vittime di questa violenza sono gli arabi e i musulmani. È un dato che non dobbiamo mai dimenticare.
Qual è, secondo lei, in questo senso, il nodo più importante da affrontare?
C’è una questione aperta in tutto il mondo arabo ed è quella della preparazione e formazione degli imam. Proprio perché non c’è un centro da cui promana una dottrina, è importante per l’Islam evitare che nascano moschee fai-da-te. C’è una realtà di frammentazione che si vede molto in Europa e si vede molto di più nei Paesi islamici. E poi c’è l’altra grande questione dell’interpretazione dell’Islam perché se l’interpretazione dei testi viene fatta in maniera del tutto decontestualizzata dalla storia e dall’identità dei vari Paesi, rischia d’innescare un integrismo violento.
Questi passi che si stanno cercando di fare sia da parte di Papa Francesco sia da parte di Al Azhar, che impatto possono avere sulle vicende geo-politiche per la pace?
Le religioni devono fare le religioni e la politica deve fare la politica. Non è che possiamo aspettarci che le religioni possano risolvere la crisi siriana o il problema della fame nel mondo. Ma va anche detto che le religioni fanno due cose fondamentali. Ribadiscono – se sono autentiche – la dimensione della famiglia umana universale e mettono in testa all’agenda mondiale le questioni che riguardano le società nei vari Paesi. Il tema delle diseguaglianze, dell’esclusione, del lavoro.
Combattere l’estremismo violento richiede un impegno ad assicurare a tutti una prospettiva di vita degna e alle giovani generazioni una speranza per il futuro.
Quali speranze nutre come ambasciatore italiano in Algeria rispetto al viaggio del Papa in Egitto?
La speranza di uscire dalla mitologia.
Sia nel mondo arabo rispetto all’Occidente, sia in Occidente rispetto al mondo arabo, viviamo di miti. Quando parliamo d’Islam, è come se ci riferissimo a una sorta di entità astratta potenzialmente pericolosa. E lo stesso vale per l’Islam, che vede nell’Occidente una forza economica e militare, un volto neo-imperialista e minaccioso con cui è impossibile dialogare. Dovremmo invece abituarci a vedere nelle diversità religiose una normalità e riconoscerci persone che devono affrontare le stesse questioni per risolverle.
È quello che disse Papa Francesco a Cheikh Ahmed Mohamed el-Tayyib, Grande Imam di al-Azhar, quando lo ha ricevuto in Vaticano: “L’incontro è il messaggio”?
Attenzione a non aspettarsi però cambiamenti strutturali, repentini e improvvisi. È un processo che bisognerà poi mantenere vivo e alimentarlo anche con questo tipo di eventi.
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