Giovanni M. Capetta
Qualche giorno fa un articolo su Avvenire di Francesco Ognibene titolava “Connessione totale. La nuova dipendenza”. Un mal celato senso di colpa mi induceva a non proseguire la lettura oltre l’occhiello e così, come faccio spesso, ho messo da parte la pagina in attesa di un momento più propizio, o forse solo di una più forte capacità di autocritica. Quando ho ripreso in mano quel testo sono bastati i primi dati di una ricerca scientifica citata dall’autore per sollecitare in me una riflessione accompagnata – non lo nascondo – da non poca ansia: “Duemilaseicento in una giornata. In media si intende. Ma il numero di volte in cui ciascuno di noi tocca lo schermo di uno smartphone per chattare, navigare, telefonare, messaggiare, giocare, consultare l’email, scattare e guardare foto, condividere ogni genere di pensiero, esperienza, immagine, idea è davvero abnorme, appena qualcuno si decide a contare quanto spesso succede nelle ventiquattrore”. Ammetto che non ho potuto non sentirmi chiamato in causa e indotto a una consapevolezza che c’è ma non fa il salto che porta all’azione. Mi riferisco ad un’azione determinata e convinta per contenere il mio uso di quello che ormai sempre meno italiani chiamano ancora telefonino, forse perché telefonare non è più la sua prima funzione, di certo non l’unica.
Ci perquisiamo continuamente per cercarlo nelle tasche o nelle borse, abbiamo bisogno di sapere che potremmo potenzialmente raggiungere chiunque in ogni momento, salvo sperare stupidamente che non avvenga lo stesso anche per noi. Quando qualcuno non ci risponde a voce o per iscritto iniziamo a temere il peggio rispetto a quella relazione o ci indispettiamo, senza ricordare che non molti anni fa era normale che per esempio, fra un trasferimento e l’altro chiunque non fosse raggiungibile… Facciamo sempre più fatica a disconnetterci durante una riunione non perché siamo così indispensabili al resto del mondo, quanto perché non consideriamo mai del tutto indispensabile dedicare sguardo e attenzione totale a chi ci sta parlando realmente rispetto a chi potrebbe in qualche modo volerci raggiungere virtualmente.
Chi più chi meno lambiamo quelle che mi dicono essere ormai già definite come nuove patologie indotte dalla Rete. Interpellato da Ognibene nell’articolo citato, lo psichiatra Tonino Cantelmi sostiene che “in 10 anni abbiamo perso il 30% delle nostre relazioni reali”. Se provo a riportare questo dato provocatorio all’interno dei contesti delle famiglie italiane, mi chiedo se siamo ancora in tempo per fermare tale deriva. Non si tratta di fare gli apocalittici e accendere roghi di smartphone, tablet, playstation o similari…, ma certo c’è da vigilare. Si tratta, probabilmente, di organizzare una sorta di patto intergenerazionale.
Se desidero che mio figlio non si ripieghi attorno a quella tavoletta magica in balia di qualche gioco che non si può interrompere neanche per venire a cena, forse come “pater familias” dovrò essere il primo a saper posare il talismano telefonico entrando in casa (ci sono famiglie che adottano cestini appositi per cercare di dare precedenza ai volti rispetto alle tastiere!). Davanti a un cellulare si possono perdere le ore, ma non è davvero all’insegna della gratuità quel tempo che non è offerto alle persone, anche a quelle con cui si comunica telematicamente, ma ancor prima a quelle con cui fisicamente si condivide la vita. “Chi è il mio prossimo?”. La domanda del Vangelo deve interpellarci anche nell’uso dei media che entrano in casa.
Chissà perché talvolta gli amici di Facebook o di WhatsApp sembrano più “urgenti” di chi ci sta aspettando a casa? Subdolamente, l’accumulo di legami e contatti ci fa perdere intensità in quelle che sono le nostre relazioni più preziose. Forse aveva presenti alcune di queste emergenze il Papa quando, a Milano, pochi giorni fa, allo Stadio di San Siro, gremito di 80 mila cresimati, invitava i genitori a saper giocare con i propri figli: “Tu, giochi con i tuoi figli?… Giochi? […]. I genitori in questi tempi non possono, o hanno perso l’abitudine di giocare con i figli, di ‘perdere tempo’ con i figli. È questa vita che ci toglie l’umanità! Ma tenete a mente questo: giocare con i figli, ‘perdere tempo’ con i figli è anche trasmettere la fede. È la gratuità, la gratuità di Dio”. In questo invito c’è una profonda saggezza che richiede un impegno grande soprattutto da parte di noi adulti: finché sapremo fermarci a giocare con i nostri figli, potremo sperare di vincere ogni dipendenza telematica.
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