DIOCESI – “Salve, o croce, unica speranza: così ci fa cantare la liturgia guardando a quella croce che viene messa al centro della nostra celebrazione e della nostra adorazione in questo venerdì santo in cui facciamo memoria della morte di nostro Signore”.
Con queste parole venerdì 14 aprile presso la Cattedrale Madonna della Marina è iniziata l’omelia del Vescovo Carlo Bresciani pronunciata in occasione della solennità “In Passione Domini”.
Il vescovo ha poi affermato: “Cosa può significare che la croce è la nostra unica speranza? Forse che siamo uomini e donne che desiderano la croce per sé o per gli altri? Certamente no. Eppure, in questa espressione è racchiusa una delle affermazioni più profonde e più vere della nostra fede e, cioè, che noi aspettiamo la salvezza non da noi, dalle nostre affermazioni di forza e potenza, ma da Gesù; affermiamo che la nostra speranza non si fonda sulle nostre forze umane o sui nostri progetti, magari anche ben congegnati, ma su Gesù.
Ma la speranza non è sempre facile da vivere, mai per nessuno, neppure per il cristiano. La storia è piena di ingiustizie, di corruzione, di sopraffazione del povero, di dimenticanza di Dio, di tutto ciò che noi con una parola chiamiamo ‘peccato’. E davvero la dimensione del peccato è grande nel mondo. A volte abbiamo l’impressione che aumenti, invece di diminuire; abbiamo la sensazione di impotenza. In che cosa possiamo sperare di fronte a tutti questi grandi segni di morte? Come vivere la speranza dentro questa realtà così densa di fumi maleodoranti? È una domanda che nasce spontanea dentro ogni essere umano.
Eppure san Pietro ricorda al cristiano che dentro questo mondo egli deve dare ragione della sua speranza (1Pt 3, 15). Non dice della fede, ma della speranza, quasi che questa sia la nota che il cristiano è chiamato a donare al mondo.
Siamo segni di speranza, perché crediamo nel crocifisso. Potrebbe sembrare una affermazione contraddittoria, qualora si pensi che la speranza di fronte al male viene dalla forza, dalla potenza (delle armi, della legge, delle punizioni carcerarie …). Noi, invece, crediamo che la speranza viene dal crocifisso. Ma dobbiamo capire bene che cosa significa questo, per poter mostrare speranza al mondo, per poter sperare e dare speranza dentro una società il cui tessuto sembra sempre più lacerato e corrotto.
Nella croce di Gesù il superficiale vede solo la morte, un’orribile morte tra i tormenti. In Colui che è appeso alla croce e vi muore, non c’è solo la morte, non c’è solo un uomo che muore, ma c’è il Figlio stesso di Dio, che si manifesta tale proprio nel modo in cui muore. Perfino il centurione, che ha assistito ai piedi della croce, costatando il modo in cui è morto, non può che affermare “costui era veramente il Figlio di Dio” (Mt 27, 54). È proprio in questo suo modo di morire che è nascosta la speranza che Dio getta nel mondo, l’unica che ci resta di fronte alla morte, che sembra mettere a tacere tutto e tutti.
Gli uomini immettono nel mondo, con il loro peccato, infiniti semi di distruzione, e poi ne pagano il prezzo raccogliendone i frutti amari e il crollo delle loro illusioni. Si procurano da soli le loro punizioni, di cui poi si lamentano e piangono. Non c’è nulla di saggio in ciò, ma nella punizione che subiscono c’è anche un richiamo di Dio: “non è così che potrete costruire una vita buona per voi e per il mondo”. Nella punizione che si procurano c’è un richiamo silenzioso di Dio che apre alla salvezza. Non è dando la morte o facendo del male a noi o agli altri che costruiamo un mondo migliore, ma, purtroppo, il mondo deve ancora comprenderlo, nonostante tanti secoli di storia.
Non basta denunciare e lamentarsi per il male che c’è nel mondo. Le denunce, anche se doverose, non bastano, per sé sole non cambiano nulla. Al cristiano è chiesto di più, è chiesto di trovare e far crescere segni di speranza dentro questo mondo, per farlo camminare in avanti. Le continue denunce dei mali del mondo (e sono tanti) o dei mali della Chiesa, possono generare solo scoraggiamento, rassegnazione o, peggio, voglia di combattere il male con altro male. Da questi atteggiamenti non può venire nulla di buono, si peggiora soltanto.
Noi cristiani siamo chiamati ad unire denuncia (non ci si può chiedere di essere ciechi) e speranza. Non basta una comunità cristiana esperta nella denuncia, ma incapace di suscitare speranza e di indicare strade in cui la speranza possa prendere corpo e lentamente generare cose nuove e migliori. Noi, davanti alla croce, non ci illudiamo, non crediamo che la meta sia facile, ma crediamo nella grandezza della fede e di quanto dal Crocifisso possiamo imparare e cioè che, senza un amore che non si lascia spegnere dai molti segni di morte, ogni speranza è vana.
La speranza cristiana viene e si fonda esattamente su quell’amore che dal Crocifisso scende su di noi e sul mondo. Per questo ci mettiamo ai piedi della croce e affermiamo che essa è la nostra speranza, perché il mondo, senza un amore come quello, è davvero senza speranza alcuna. La possibilità di redenzione sta lì, in quell’amore che getta semi nuovi dentro un mondo segnato dal male, e Gesù, il Figlio di Dio fa questo e ce lo mostra proprio nella sua croce. È per questo che la croce ha sempre parlato di speranza nei secoli.
A partire dalla croce di Cristo, noi cristiani siamo chiamati a farci segno di speranza, come singoli e come comunità. Noi sappiamo di non essere la speranza del mondo, solo Dio lo è, ma possiamo con Lui e con la sua grazia essere segno di speranza, per i segni concreti di vero amore che possiamo seminare nel mondo.
Dobbiamo avere il coraggio di farci segno di speranza e, poiché il segno non è tutto, avere la pazienza, dopo aver seminato, di attendere, anche a lungo, che esso porti frutto. Non è detto che il frutto si veda subito. Il frutto della croce di Cristo ha bisogno di passare attraverso la morte e di attendere il giorno di Pasqua per mostrarsi in tutto il suo splendore.
I nostri segni sono piccoli, ma non dobbiamo disprezzarli, non dobbiamo guardare solo a ciò che sembra immediatamente vincente, a ciò che fa rumore: questo fa la mentalità corrotta del mondo. Guai se questa mentalità entra nella Chiesa. Il segno della croce di Cristo è in sé piccolo, ai piedi del Golgota quasi nessuno l’ha notato: ma la speranza ha gli occhi lunghi e le ali larghe, vede lontano come l’aquila con i suoi occhi acuti e con le sue grandi ali resiste ai venti contrari. Gesù guardava lontano, sapendo sopportare il presente, non lasciandosi piegare da esso, ma seminando l’amore che avrebbe redento il mondo.
San Giacomo scrive ai suoi cristiani che vivevano in difficoltà non minori delle nostre: “Siate pazienti, fratelli, e guardate il contadino: attende il frutto prezioso della terra pazientando, finché riceve le piogge autunnali e primaverili. Pazientate anche voi, rafforzate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”. Il contadino getta il seme e sa che deve attendere a lungo, ma se il seme è buono porta frutto e solo allora il contadino raccoglierà il premio della propria fatica. Una volta gettato il seme buono, esso crescerà ne siamo certi.
L’impazienza del tutto e subito rende impossibile alla speranza di mettere radici profonde, così come la rende impossibile chi si rifiuta di gettare nella terra seme buono.
La croce di Cristo è nostra unica speranza, perché il seme che essa ha gettato nel mondo è il seme di un amore che non si lascia spegnere da nessun male: è l’amore di Dio, imitando il quale non solo diamo ragione della speranza che è in noi, ma diventiamo in Cristo noi stessi piccoli, ma veri, segni di speranza per il mondo.
Per questo oggi preghiamo: o croce, nostra unica speranza”.
Alle 21.00 si è invece tenuta la “Via Crucis” cittadina che ha portato tutte le parrocchie del centro di San Benedetto del Tronto a ritrovarsi in Piazza Nardone.
Di seguito la riflessione del Vescovo Carlo Bresciani