di M. Michela Nicolais
“I giovani non nascono su Marte, sono figli della nostra cultura”. Parte da questa battuta il sociologo Mario Pollo, che insegna pedagogia generale e sociale e psicologia delle nuove dipendenze all’Università Lumsa, per scattare la sua fotografia dell’universo giovanile, che sarà al centro sia della prossima Assemblea della Cei che del prossimo Sinodo convocato da Papa Francesco. Il monito al mondo adulto è a rifuggire dagli stereotipi, l’invito è ad assumersi la responsabilità di aver rubato loro il futuro. Infine, la provocazione: quello che i giovani “nativi precari” possono insegnarci è “una progettualità radicalmente diversa alla programmazione, che nell’umano non funziona”.
Cosa determina, e quale peso specifico ha, l’influenza dei social media sui giovani di oggi?
Uno dei tratti peculiari delle nuove generazioni è la difficoltà a stabilire relazioni significative con gli altri, frutto della tendenza a relazionarsi con essi sul modello dei social media, caratterizzato dall’inautenticità: mi presento secondo una certa maschera e mantengo il livello di comunicazione che non metta in crisi le reciproche maschere. Per questo si preferiscono le relazioni virtuali, perché è più facile gestirle: oggi, per la complessità sociale, la persona manifesta identità diverse a seconda del contesto sociale in cui si trova. Questa poliedricità consente di avere una pluralità di valori e di modelli di vita, ma senza gerarchizzarli: non c’è un centro simbolico che fa sì che alcuni valori o credenze diventino egemoni. Così, molti giovani non hanno un vero progetto di vita: hanno desideri, speranze non sempre realistiche nei confronti del futuro, ma non vivono il futuro nel presente, cioè non sanno fare nel presente ciò che è necessario per costruire un certo tipo di futuro.
Si limitano, in media, a vivere ciò che accade: la loro vita si costruisce per occasioni e per frammenti, ma non c’è – tranne lodevoli eccezioni, che però sono una minoranza – un progetto nel futuro, fatto della capacità di selezionare ciò che è congruente con esso e ciò che non lo è. Il progetto non lo fanno loro, ma gli avvenimenti.
I giovani sono per antonomasia le principale vittime degli stereotipi più in voga tra gli adulti: non c’è il rischio di considerarli solo una “categoria”?
Mentre alla fine degli Anni Sessanta e Settanta si parlava dei giovani in maniera unitaria, oggi non esiste più una condizione giovanile: esistono i giovani, e ognuno è diverso dall’altro, anche perché i percorsi di crescita, che prima erano standardizzati, ora si sono individualizzati, in quanto dipendono dalle risorse che si hanno a disposizione e dal modo che ciascuno di loro ha di metterle a frutto.
Si è allargata, così, la forbice tra alcuni giovani molti brillanti e molti altri che invece rimangono indietro, anche a parità di titolo di studio. Dovremmo abituarci non tanto a parlare dei giovani, che non esistono come categoria, ma delle singole realtà giovanili, che sono molto eterogenee fra loro.
Spesso ci si ricorda dei giovani solo quando diventano “eroi negativi”, perché protagonisti di crimini o vittime della droga. Perché nessuno, in Italia, si assume la responsabilità di aver rubato loro il futuro?
La tendenza degli adulti a considerare i giovani come un problema è un modo per esorcizzare il fatto che gli adulti non hanno operato affinché i giovani crescessero e sviluppassero le loro potenzialità. Lo denunciavo già nel 1994, in una mia ricerca sul disagio giovanile in Italia. Gli adulti hanno voluto tenere fuori i giovani dalle dinamiche della vita sociale, e ciò giustificava l’incapacità di prendersi cura delle nuove generazioni, di non aver investito su di loro, di averli di fatto parcheggiati in un parcheggio, a volte molto confortevole e lussuoso ma pur sempre un parcheggio.
La precarietà, che ci piaccia o no, è la cifra del nostro tempo, non solo sul lavoro. I giovani, che sono “nativi precari”, hanno qualcosa da insegnarci nel padroneggiarla?
I giovani di oggi sono nati in un tempo che ormai è frammentato, fatto di presenti che si susseguono. Non sono abituati a prendere impegni di lunga durata, e nel lavoro nemmeno glieli offrono. È quel vivere alla giornata che caratterizza le loro scelte. Un cinquantenne che perde il lavoro va in crisi radicale, un giovane di vent’anni è abituato a prendere i “lavoretti” che gli capitano, riesce maggiormente a cavarsela, anche se di certo non vive una situazione soddisfacente.
I giovani di oggi ci insegnano che le programmazioni non funzionano: c’è una progettualità nuova che possiamo imparare da loro, ed è quella che riesce a costruire un progetto leggendo i segni che ogni giorno il Signore ci dà, e a cogliere lì la direzione per costruire la propria vita.
Si tratta di una progettualità radicalmente diversa dalla programmazione, che nell’umano non funziona. Come diceva Euripide: “L’atteso non si compie, all’inatteso un dio apre la porta”.