di Sarah Numico
SVEZIA – È passato un mese da quando, il 7 aprile scorso, un attentato di matrice terroristica nel cuore di Stoccolma ha lasciato 5 morti e nove feriti. Quarantotto ore dopo quegli eventi, più di ventimila persone si sono ritrovate sulla piazza centrale della capitale svedese per una “manifestazione dell’amore” (Kärleksmanifestation), iniziativa nata dalla voglia di una persona qualunque, Damon Rasti, anche lui immigrato, di dire no alla paura e sì al coraggio di custodire una Svezia accogliente e tollerante. Il tema immigrazione è tornato a svettare in cima all’agenda politica che guarda già alle elezioni del 2018, in una campagna elettorale che sembra essere stata aperta proprio sulla piazza di Stoccolma, il 7 aprile.
Accoglienza e leggi. Il responsabile per il settore migrazioni della Caritas svedese, George Joseph, ricorda alcuni numeri: nel 2015 sono arrivati 263mila richiedenti asilo in pochi mesi; 36mila minori non accompagnati, più della metà afghani. “L’agenzia svedese per le migrazioni è un sistema molto ben regolato per l’accoglienza, ma con 14mila arrivi al mese è entrato nel caos”. La risposta immediata è stata quella del sostegno da parte delle Chiese, della società civile, di singole persone, con un atteggiamento di accoglienza ed empatia a cui il governo ha dato sostegno fino a quando “si sono resi conto che lo sforzo non era condiviso a livello europeo”. Quindi è stato introdotto il controllo delle frontiere svedesi e nel luglio 2016 leggi restrittive, che dovrebbero restare in vigore fino al 2018. Ora i richiedenti asilo ricevono un permesso temporaneo di 3 anni (che si riduce a 13 mesi per chi ha uno status di rifugiato sussidiario) e non più permanente, e non hanno diritto alla riunificazione familiare, salvo eccezioni. In caso di decisione negativa, se prima potevano restare per un certo periodo nelle strutture governative d’accoglienza, ora hanno 4 settimane di tempo per lasciare il Paese volontariamente, altrimenti vengono letteralmente buttati per strada e non ricevono più alcun sostegno. E così nel 2016 gli arrivi sono scesi a 29mila. “Io temo che queste leggi diventeranno definitive in Svezia”, commenta rassegnato George Joseph. “Purtroppo siamo il secondo Paese scandinavo, dopo la Danimarca, ad avere leggi così restrittive e nel corso degli anni l’apertura è calata”. Il nuovo sistema tra l’altro è molto costoso per lo Stato, perché “dopo tre anni o 13 mesi, non potremo rimandare indietro queste persone, ma bisognerà di nuovo fare tutto l’iter perché ricevano un nuovo permesso. E poi c’è la contraddizione che per avere un lavoro bisogna avere un permesso di soggiorno permanente, quindi di fatto si crea più incertezza per l’individuo e costi più alti per la società. Noi Chiese vorremmo che si lavorasse di più per l’integrazione e si sostenesse il lavoro della società civile”.
Alcuni dati. Questa di fatto, superata l’emergenza dell’accoglienza, sarà la sfida della Svezia nei mesi e negli anni a venire: il 72% delle richieste sono state accolte; per i siriani e gli eritrei la percentuale è del 100%. Per gli iracheni e gli afgani del 49%. I minori accolti sono l’85%; i respinti sono stati rimandati in Afghanistan. “Ovviamente molti respinti restano come immigrati irregolari” e ricevono aiuto dalle Chiese e dalle Caritas.
Nel breve periodo è “difficile trovare lavoro; la Svezia ha 10 milioni di persone e un mercato del lavoro non troppo grande. Molti vivono quindi a spese del sistema sociale. I tassi di disoccupazione tra i rifugiati sono tre volte maggiori di quelli degli svedesi, ma nel lungo periodo, 8 anni, si appianano e molti imparano la lingua e trovano lavoro”. La risposta sociale a questa situazione è bicolore: “Continua anche dopo l’emergenza, e addirittura cresce quel livello incredibile di solidarietà che io non avevo mai visto prima”. Ci sono però anche “gli estremismi e i populismi dei ‘Democratici svedesi’ che nei sondaggi di opinione registrano una crescente approvazione (ora al 19%). Anche questo è parte della realtà”.
Il ruolo delle Chiese. Oltre che per l’accoglienza e l’integrazione, le Chiese si sono mobilitate in una campagna “per chiedere di tornare alla tradizione umanitaria della Svezia, più aperta nei confronti delle famiglie e dei minori. Sono state raccolte oltre 80mila firme, consegnate al Governo, per far revocare le leggi restrittive”. La discussione con i ministri e le agenzie governative implicate continua e “la politica apprezza che le Chiese abbiano assunto questa leadership morale, ma ci è stato detto chiaramente che l’Unione europea deve assumersi le sue responsabilità e che noi non possiamo accogliere milioni di persone”. Il timore dei politici svedesi è che “se si rendesse di nuovo permanente la concessione del permesso o si fosse più generosi nelle riunificazioni familiari la maggioranza dei richiedenti asilo in Europa arriverebbero qui, ma secondo me non succederebbe”. In effetti sono state 8mila le richieste d’asilo nei primi tre mesi del 2017. “La Svezia non è più un Paese attraente per le persone. Ed è quello il segnale che i politici volevano”.
Il Papa, le elezioni… Ci sarebbe posto? “Sì, la Svezia è un paese ricco. Riusciremmo a gestire questi numeri. Magari si creerebbe un caos temporaneo, ma poi lo si supererebbe. E ne abbiamo bisogno, perché la popolazione invecchia, come dappertutto in Europa. Guardando alla situazione dell’Italia e della Grecia e di altri Paesi d’Europa vorrei che i Paesi nordici fossero più generosi in questo momento storico”. La visita di Papa Francesco in Svezia “è stata un grande successo ed è stato molto apprezzato il suo discorso sui temi sociali. Però continuiamo ad avere le leggi restrittive: è una contraddizione, e nulla mostra che torneremo al sistema precedente, anche perché ci saranno le elezioni e c’è paura che cresca la popolarità dei nazionalisti”.