di Sergio Perugini
Il cinema, l’arte, ci può accostare a Dio, ci può offrire una traccia visibile della Sua presenza e misericordia? È questo quello di cui dibatteranno insieme, il prossimo 25 maggio al 70° Festival di Cannes, mons. Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria della Comunicazione della Santa Sede, nonché accademico e studioso di cinema di lungo corso, e Wim Wenders, regista tedesco tra i più rilevanti in Europa, vincitore di numerosi riconoscimenti nella sua carriera a cominciare dalla Palma d’oro proprio a Cannes per “Paris, Texas” nel 1984 seguito poi da un Grand Prix della Giuria per “Così lontano così vicino!” nel 1993. L’Agenzia Sir ha intervistato in anteprima i due esperti a pochi giorni dalla loro partenza per Cannes, per l’evento promosso dal “Festival Sacré de la Beauté” (Festivalsacredelabeaute.org).
Mons. Viganò: per i 70 anni del Festival di Cannes, uno studioso di cinema come lei, oltre che ministro della Chiesa, si trova a confrontarsi con un regista visionario come Wenders, che ha più volte esplorato i temi della spiritualità. Il cinema sa parlarci di Dio?
Il Festival di Cannes è tra primi e più importanti Festival internazionali, insieme alla Mostra di Venezia, dedicati alla cultura cinematografica. In 70 anni abbiamo visto trionfare importanti autori, capaci di giocarsi con idee coraggiose e, persino, scomode. Penso all’ultimo vincitore, “Io, Daniel Blake” del regista inglese Loach, cantore degli ultimi della società, al pari dei fratelli Dardenne che qui a Cannes hanno vinto con “L’Enfant” (2005) e con “Rosetta” (1999). Ancora, “Mission” di Joffé nel 1986 o “L’albero degli zoccoli” di Olmi nel 1978, fino a “Miracolo a Milano” di De Sica nel 1951. Il Festival, pertanto, si configura come uno spazio di inclusione culturale, dove ben si inserisce l’iniziativa della “diaconia della bellezza”. In alcuni miei studi, spesso ho sottolineato come il cinema abbia cercato Dio nelle pieghe del visibile, misurandosi con la sua presenza o con la sua assordante mancanza.
Il cinema, infatti, è uno sguardo “estroverso”, un guardare che tiene sempre con sé, vivo ai bordi dell’immagine, quello che non si vede. Mostra i propri confini e si/ci spinge a oltrepassarli.
Del cinema di ieri, autori capaci di offrire contributi significativi su questi temi sono senza dubbio Bresson e Bergman, in particolare il suo “Il settimo sigillo” (1957): la sofferta e disperata ricerca di Dio da parte del cavaliere Antonius Block. Del cinema di oggi, certamente va richiamata la poetica di Wenders, da “Il cielo sopra Berlino” (1987) al “Il sale della terra” (2014) sul fotografo Salgado.
Wenders: nella sua lunga carriera, ha descritto la presenza del Sublime, di Dio. Ci può raccontare il suo approccio personale e artistico alla spiritualità, a Dio?
È una domanda impegnativa. Ovviamente, il rivolgerti al lavoro, al mondo e, in particolare, agli “altri” è diverso quando credi di essere guardato da un Dio che ti ama; quando quel Dio manifesta se stesso (o se stessa) in ogni volto umano, in ogni sguardo che incroci. Non ero così consapevole di questa “responsabilità”, in assenza di un termine migliore, ovvero del fatto che la fede potesse influenzarti come artista fino a quando, nel 1987, non ho aderito al progetto di un film poetico, totalmente improvvisato, quale “Il cielo sopra Berlino”. È la storia di due angeli custodi che tengono d’occhio i propri “protegés” nella città di Berlino. Quando mi sono accorto che il compito più importante del film era cercare di rendere, di declinare, “the Angel’s gaze at people”, lo sguardo degli angeli sulle persone, ma anche di mostrare come gli angeli ci vedono, questo mi ha fatto comprendere che tale opera ha avuto un altro effetto in me, mai sperimentato prima.
Il cinema in verità è capace di farci guardare il mondo in maniera differente, di rivelarci realmente che uno sguardo di tenerezza, “a loving look”, è di fatto possibile.
In particolar modo “Il cielo sopra Berlino” non solo ha schiuso dinanzi a noi il mondo visibile, ma ci ha permesso di cogliere anche dei frammenti di quello invisibile, di quello celeste. Col senno di poi, dunque, è sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull’atto del vedere; come se gli angeli mi avessero rivelato che era del tutto corretto diffondere “il mio approccio personale e artistico alla spiritualità” – come lo definisce lei – nel mio lavoro. E che grande differenza ha fatto!
Mons. Viganò: guardando al cinema di Wenders, più volte lei ha richiamato le opere del regista tedesco, in particolare la rappresentazione poetica degli angeli in “Il cielo sopra Berlino” e “Così lontano così vicino”. Quali aspetti stilistico-narrativi l’hanno colpita di più in tali opere? E perché è così legato alla figura degli angeli nel e per il cinema?
Gli angeli tratteggiati da Wim Wenders nei film “Il cielo sopra Berlino” (1987) e “Così lontano così vicino” (1993) appaiono come segni di una provvidenziale presenza benevola del mondo spirituale. Sono molto legato al modo in cui il cinema ha provato a dare forma agli angeli, quelli lontani dal cascame devozionale, quelli che traggono origine dal testo biblico e dalla poesia di Dante oppure di Rainer Maria Rilke. Gli angeli, quelli di Wenders, ci ricordano che sono luce e movimento, così come lo è il cinema stesso, combinazione di fatto di luce e movimento. È probabilmente un dono della provvidenza, nella storia delle scoperte scientifiche, che il nome degli inventori del cinema sia proprio Lumière, luce appunto. “Nomen omen”, il destino inciso proprio nelle pieghe del nome.
Da tempo giunge dalle associazioni internazionali il desiderio che anche il cinema, al pari della tv e del teatro, abbia un patrono. Allora perché non pensare proprio agli angeli?
Perché come gli angeli sussurrano all’orecchio dell’uomo la via da intraprendere per raggiungere Dio, è bello guardare al cinema, che di fatto è visione, come a una preparazione remota alla visione beatifica. San Giovanni Paolo II ha dichiarato che gli angeli sono per natura spirituali, “dotati di intelletto e di libera volontà, come l’uomo, ma in grado a lui superiore, anche se sempre finito, per il limite che è inerente a tutte le creature”. Gli Angeli sono parte del piano provvidenziale di Dio, partecipano alla relazione, alla comunicazione, tra Dio e l’uomo, una relazione che trova il suo completamento in Cristo.
Wenders: conoscendo da molto tempo mons. Viganò, ci può dire come è stata l’esperienza della regia dell’apertura della Porta Santa a San Pietro per il Giubileo della misericordia? Come è stato lavorare con il Centro Televisivo Vaticano? Ultimo, ha avuto occasione d’incontrare papa Francesco?
Il Centro Televisivo Vaticano è indubbiamente una straordinaria realtà. Confesso che osservare Stefano D’Agostini dirigere la grande macchina della regia con 20 telecamere in occasione dell’apertura della Porta Santa è stata per me una bella esperienza. Ho avuto un semplice ruolo all’interno della complessa diretta tv della cerimonia, cui ho partecipato e assistito grazie all’invito di don Dario. Ed è vero, conosco don Dario ormai da molti anni; sono colpito dalla sua cultura cinematografica (che ovviamente non è la qualifica più importante in quanto Prefetto della Segreteria per la Comunicazione). Confermo, inoltre, di aver incontrato papa Francesco. Ne parlerò però probabilmente insieme a don Dario in occasione della tavola rotonda al Festival di Cannes, nella cornice del “Festival Sacré de la Beauté”.