di Daniele Rocchi
Arabia Saudita, Israele e Gerusalemme, poi Roma, Città del Vaticano, Bruxelles e, infine, Taormina per il G7 a presidenza italiana. Sono queste le tappe del primo viaggio all’estero – previsto a fine maggio – del presidente americano, Donald Trump, annunciate in conferenza stampa il 4 maggio scorso. Fitto il calendario d’incontri: si parte con il re saudita Salman bin Abd Al-Aziz, custode delle due Sante Moschee, La Mecca e Medina, per proseguire con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il leader palestinese Mahmoud Abbas. A Roma Trump incontrerà il presidente Mattarella e il 24 maggio mattina, alle ore 8.30, sarà ricevuto da papa Francesco. Da Roma il presidente Usa proseguirà per Bruxelles, per partecipare il 25 maggio al summit Nato e agli incontri con i leader Ue, e quindi tornerà in Italia, a Taormina, per il G7 (26 e 27 maggio). E proprio in questa sede ci potrebbe essere il primo incontro bilaterale con il presidente russo Vladimir Putin. Al centro dei colloqui in Medio Oriente, la lotta al terrorismo e all’estremismo, la pace fra israeliani e palestinesi, ma anche l’omaggio alle tre religioni abramitiche. A ben guardare si tratta di un viaggio che potrebbe ridisegnare la politica estera americana in Medio Oriente, dopo un certo disimpegno Usa targato Barack Obama. Un colpo di scena di Trump che per tutta la campagna elettorale aveva ripetuto, come un mantra, “America first”: basta fare i gendarmi del mondo, ora è tempo di dedicarsi all’America. Salvo poi accorgersi che “America first” poteva ben accordarsi con le esigenze di leadership mondiale quando questa è funzionale agli interessi e alla sicurezza degli Usa.
Un ruolo da riaffermare. “Lo scopo di Trump, in questa sua prima missione in Medio Oriente – conferma Janiki Cingoli, direttore del Cipmo, il Centro italiano per la pace in Medio Oriente – è quello di riaffermare il ruolo americano nella Regione dopo l’appannamento dell’era Obama che aveva cercato di assumere una posizione equilibrata tra Arabia Saudita e Iran. Trump, invece, vede l’Iran sciita come nemico principale. Pur non arrivando a denunciare l’accordo sul nucleare, che lo avrebbe isolato dagli altri firmatari, come Russia, Ue, Germania e Cina, Trump intende sviluppare una politica di contenimento dell’Iran basata sull’appoggio ai suoi nemici, vale a dire Israele e gli altri grandi Paesi arabi”. “Una scelta coerente – per Cingoli – con il sistema di alleanze che deve creare in Medio Oriente, rimarcando anche l’urgenza di una coalizione delle fedi monoteistiche contro il terrorismo”. Da qui l’idea di recarsi prima in Arabia Saudita dove si trovano La Mecca e Medina, poi a Gerusalemme, e infine in Vaticano, da Papa Francesco. “La componente religiosa del viaggio – dice il direttore del Cipmo – vuole calmare le tensioni che si erano create verso il mondo islamico con la questione dei visti e con il Vaticano, dopo le critiche di Papa Francesco, sulla costruzione del muro al confine con il Messico e sulla ‘madre di tutte le bombe’ lanciata in Afghanistan”. Ma c’è anche un altro aspetto di questa missione che va tenuto presente e riguarda, sottolinea l’analista, “la necessità degli Usa di riaffermare la propria presenza in Medio Oriente specie ora che la Russia di Putin, con i suoi alleati, Siria e Iran, e in parte Turchia, ha ricominciato a muovere pedine nella regione. Trump vuole arrivare al confronto con Putin partendo da una posizione dominante nell’area”.
Un quadro di alleanze e la pace tra israeliani e palestinesi. In questo contesto la missione di Trump segna anche “il primo passo verso una nuova iniziativa di pace” a stelle e strisce del conflitto israelo-palestinese, annunciata dallo stesso Trump il 3 maggio scorso, durante l’incontro con l’omologo palestinese Abbas. Anche in questo caso la differenza con la politica di Obama è marcata: “Trump – spiega Cingoli – punta a recuperare le posizioni espresse in una lettera da Bush padre a Sharon nell’aprile del 2004 in cui si parla di accordo da raggiungere solo sulle basi di scambi territoriali concordati. Posizioni che Obama aveva rifiutato di considerare. Torna attuale – aggiunge il direttore del Cipmo – il Piano di pace arabo del 2002, proposto dai sauditi, che prevede, tra le altre cose, che tutti gli Stati arabi e musulmani riconoscano Israele. Quest’ultimo, per bocca del premier Netanyahu ha affermato che il Piano potrebbe essere un punto di riferimento per la ripresa del negoziato tra le due parti. E dal momento che l’interlocutore palestinese è troppo fragile per dare garanzie è necessario creare un asse robusto di alleanze regionale con Paesi quali Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Giordania a fare da garanti per gli impegni firmati da Abbas”. Per Cingoli “il percorso è lungo è complicato ma Trump non ama farsi imbrigliare da cavilli e sofismi e punta al sodo della faccenda. Per questo ritengo probabile un summit con israeliani, palestinesi, i leader dei Paesi arabi e il Quartetto (Usa, Russia, Cina e Ue) per lanciare una nuova ipotesi di percorso di pace. E chissà che farsi attore di pace nella regione ricercando la soluzione del conflitto israelo-palestinese, non possa facilitare una distensione dei rapporti con Papa Francesco”.