di Enzo Bianchi
Per la mia generazione la processione del Corpus Domini, con l’ostensorio e il baldacchino che attraversano le vie della città, ha costituito a lungo l’immagine simbolica più pregnante di un tipo di presenza della Chiesa nella società. Ora che, al contrario, alcuni vorrebbero forzare la laicità dello Stato fino a escludere qualunque manifestazione pubblica di culto, relegando la dimensione della fede alla sfera strettamente privata, diviene necessario riscoprire le modalità in cui la fede possa essere testimoniata comunitariamente anche nello spazio pubblico per eccellenza, la città.
Si potrebbe dire che la celebrazione dell’eucaristia avviene nello spazio santo della Chiesa e in unità con lo spazio santo della comunione dei santi del cielo e degli angeli, nel “cenacolo”, ma in funzione di una vita nella polis in cui l’eucaristia dà il suo frutto. Quando Gesù è morto dando la vita, la città ha visto un uomo in croce, la cui esecuzione era profana, addirittura un anatema, fuori della città (cf. Eb 13,12-13); eppure escatologicamente Luca ha letto che la folla accorsa a vedere quello spettacolo – letteralmente, quella “contemplazione” (theoría) – ritorna in città battendosi il petto (cf. Lc 23,48). Ora, se degli uomini eucaristici muoiono dando la vita per i fratelli – pensiamo ai martiri dei nostri giorni –, se muoiono uccisi violentemente dalla città totalitaria che sempre si affaccia nella storia, e se morendo così perdonano e invocano da Dio il perdono per i nemici, o se donne e uomini eucaristici servono umilmente i fratelli spendendo quotidianamente la vita per loro, se ci sono cristiani che scelgono i poveri, gli umili e gli ultimi e, discernendoli tra il prossimo, li accompagnano fino a condividerne la sofferenza, allora costoro preparano e provocano un cambiamento in chi abita la città. Perché? Perché narrano l’amore, esattamente come l’eucaristia narra l’amore! Al termine della lavanda dei piedi, Gesù dice: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). È la testimonianza eucaristica per i “molti”, i rabbim, fatta vita, tradotta in relazioni interpersonali e sociali. “Ecco viene sulle nubi e ogni occhio lo vedrà” (Ap 1,7): è lui, il Cristo trafitto, il Cristo narrato dall’eucaristia, il Cristo narrato dalla croce.
Oggi che le nostre città non sono più interamente cristiane (ammesso che lo siano mai state), possono sembrare due realtà lontane, senza possibilità di interazione, dobbiamo discernere atteggiamenti e parole che rendano la comunicazione non solo possibile, ma operante in profondità, segretamente, senza appariscenza né ostentazione.
Avviene in virtù delle energie eucaristiche sprigionate dalla morte e dalla resurrezione del Signore che l’eucaristia narra, ma avviene anche se noi cristiani celebriamo con serietà e autenticità l’eucaristia, riconoscendo e adorando il Signore, lasciandoci plasmare da essa a immagine di Gesù Cristo, vivendo come lui ha vissuto! Egli è passato tra gli uomini facendo il bene, ricorda Pietro (cf. At 10,38), e chi vive dell’eucaristia e secondo la sua logica dimora nella città, tra i propri contemporanei, facendo il bene. Ignazio di Antiochia scriveva che “il cristianesimo non è opera di persuasione, ma è qualcosa di veramente grande!”; non va cioè ostentato ma vissuto! Se i cristiani saranno uomini e donne eucaristici, capaci di intercessione e di ringraziamento-eucaristia, allora la città ne trarrà pace e bene. “È a causa dell’intercessione dei cristiani che il mondo va avanti!”, scriveva l’apologeta Aristide: sì, questa intercessione è anche solidarietà attiva, compagnia affettuosa che diventa feconda per la polis intera.
0 commenti