di M. Chiara Biagioni
Dal giugno 2014, anno in cui lo Stato Islamico si è autoproclamato, al giugno 2017, ci sono stati 51 attacchi terroristici compiuti da 65 attentatori in 8 Paesi del mondo. Il Paese che ha subito il maggior numero di attentati è stata la Francia con 17 azioni terroristiche, seguita da Stati Uniti (16), Germania (6), Regno Unito (4), Belgio (3). Nei 51 attacchi sono morte 395 persone e ne sono rimaste ferite 1.549 (il dato esclude il numero degli attentatori). È quanto emerge da un Rapporto “Fear Thy Neighbor. Radicalization and Jihadist Attacks in the West”, realizzato dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) in collaborazione con il Programma sull’estremismo della George Washington University e l’International Centre for Counter–Terrorism dell’Aia. Lo studio curato da Lorenzo Vidino e Francesco Marone, verrà presentato mercoledì 21 giugno a Roma alla presenza del ministro dell’Interno, Marco Minniti.
La Francia è stato il Paese con il maggior numero di vittime (239), seguita dagli Stati Uniti (76). Nonostante la radicalizzazione abbia presa soprattutto sui giovanissimi, l’età media degli attentatori è di 27,3 e quasi un terzo dei terroristi impiegati sul campo ha una età superiore ai 30 anni. Sebbene poi stia aumentando la presenza delle donne nella rete jihadista, solo due se ne contano sui 65 terroristi. Le donne assumono piuttosto un ruolo “ausiliare”, sostenendo le attività di reclutamento, logistica e supporto dei terroristi. Praticamente inesistente è il legame del fenomeno del terrorismo con quello dell’immigrazione:
dal Rapporto emerge infatti che il 73% degli attentatori erano cittadini del Paese nei quali hanno compiuto le azioni terroristiche.
Il 17% si è convertito all’Islam e almeno il 57% aveva un passato di delinquenza e detenzione. Solo il 18% ha alle spalle un’esperienza di combattimento all’estero come foreign fighters.
I terroristi – si legge nel Rapporto – hanno impiegato tattiche e metodi diversi per condurre le loro azioni: si va dai veri e propri raid militari sincronizzati e coordinati ad attacchi spontanei e solitari condotti da singoli individui o piccoli gruppi da tre utilizzando coltelli, machete, esplosivo o veicoli scaraventati sulla folla. I luoghi prescelti sono i centri urbani che consentono alti livelli di accessibilità, anonimato, libertà di movimento; possibilità di massimizzare il danno letale del colpo nonché luoghi dal valore altamente simbolici come gli Champs-Elysées, il Museo del Louvre e Westminster a Londra. Il “picco” degli attentati si è avuto a luglio 2016 con 4 attacchi (2 in Francia e 2 in Germania) e 43 terroristi su 65 hanno perso la vita durante l’azione terroristica.
L’attacco più letale è stato quello a Parigi nel novembre 2015 con 130 vittime, di cui 90 solo al teatro Bataclan. Quello di Nizza invece è stato sì compiuto da un “lupo solitario” con un tir ma ha provocato 86 vittime.
Sono tutte azioni di matrice jihadista. Il Rapporto evidenzia però che solo l’8% delle azioni sono state condotte da individui che eseguivano ordini diretti impartiti dallo Stato islamico. La maggior parte degli attentati sono stati messi a segno da persone che avevano sì una qualche connessione, magari tramite web, con lo Stato Islamico, ma hanno agito indipendentemente.
Due gli elementi più interessanti che emergono dal Rapporto a parere di uno dei due curatori Lorenzo Vidino. Il primo è che la maggior parte dei soggetti è nata e cresciuta nei nostri Paesi. “È vero – dice – che nel dibattito pubblico si parla di rifugiati e di minaccia alla sicurezza che viene dall’esterno. È vero che ci sono stati casi importanti di soggetti arrivati in Europa illegalmente ma statisticamente la stragrande maggioranza dei terroristi sono soggetti nati e cresciuti nei nostri Paesi. Siamo pertanto di fronte ad una minaccia autoctona”.
La seconda cosa è che la maggior parte degli attentati, tranne quelli di Parigi e Bruxelles, non sono perpetrati direttamente dallo Stato islamico ma da soggetti che hanno avuto solo qualche legame con l’lsis. “Non siamo quindi di fronte a cellule strutturate, addestrate e quindi inviate sul campo per colpire, ma sono attacchi compiuti con un controllo minimo a distanza. In una prospettiva futura – secondo Vidino -, questa potrebbe essere la dinamica di uno Stato islamico che in Siria e Iraq sta perdendo territorialità: incitare, cioè, soggetti già presenti in Occidente a mobilitarsi e compiere attentati con
un investimento minimo di risorse per un massimo ritorno in termini di vittime e immagine sull’opinione pubblica occidentale.
E in Italia? Anche nel nostro Paese, la minaccia è autoctona. Il Rapporto indica il caso eccezionale di Ravenna. La città ha infatti il triste record di aver prodotto 9 foreign fighters (ma il numero reale potrebbe anche salire a 20): una cifra significativa e molto più elevata se paragonata a metropoli come Roma, Milano e Napoli.
Vidino fa poi riferimento agli ultimi due episodi: il caso Youssef Zaghba, il ragazzo italo-marocchino di Bologna che ha colpito a Londra, e il caso di Milano, dove un uomo con simpatie jihadiste ha aggredito con un coltello alla stazione centrale. “Dimostrano che anche da noi c’è un numero sempre maggiore di soggetti radicalizzati con cittadinanza italiana e che il sistema delle espulsioni è impossibile da applicare con soggetti con passaporto italiano”. C’è infine lo scenario che si apre con Internet e nel quale occorre entrare se si vuole combattere il terrorismo. Si tratta però di “rapporti virtuali tra Stato islamico e soggetti sul territorio – avverte il professore – che si spostano sempre di più e continuamente su piattaforme criptate, con un cambiamento tecnologico, che non consente di fermarsi mai, e richiede un ingente investimento”.
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