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Grottammare “Meeting nazionale Giornalisti cattolici e non”, la visita ad Arquata del Tronto dove “Non ci sono case diroccate: c’è il nulla”

Di Maria Silvia Cabri

È stato un “pellegrinaggio del dolore” quello che i partecipanti al quarto meeting dei “giornalisti cattolici e non” (Grottammare, 22-25 giugno), hanno condotto nella zona rossa di Arquata del Tronto e di Pescara del Tronto, il comune che ha subito più danni nel terremoto del 24 agosto 2016.

“Non ci sono case diroccate: c’è il nulla”. Le parole di mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, sono di quelle che lasciano il segno anche in chi dal terremoto è stato toccato in prima persona e ne ha vissuto le conseguenze, casa inagibile e vita da sfollato. Camminare con lui tra le macerie di Pescara del Tronto, esattamente a dieci mesi dal sisma del 24 agosto, è come ricordare tutto di quel terribile giorno e rivivere, nel contempo, il 20 e 29 maggio 2012 quando la terra ha tremato in Emilia. Perché mons. D’Ercole ricorda tutto di quel giorno:

la “puzza del terremoto”, le urla delle persone, la lotta incessante tra la vita e la morte. Sì, perché il terremoto ha un suo odore, anzi una sua “puzza”, la puzza di morte, di distruzione, di devastazione. Ha l’odore del nulla. 47 morti a Pescara del Tronto, 51 ad Arquata del Tronto. “Dal sisma non si ri-nasce, ma si nasce di nuovo”, afferma l’arcivescovo de L’Aquila, monsignor Giuseppe Petrocchi, che di queste zone è originario e ne è stato anche parroco. Si cammina insieme tra i cumuli di macerie parzialmente rimosse e accantonate per liberare le strade polverose.

Arquata del Tronto, un piccolo comune di poco più di mille abitanti, noto per la storica rocca medievale che sovrastava l’abitato. Era l’unico comune d’Europa racchiuso all’interno di due aree naturali protette: il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a sud, e il Parco nazionale dei Monti Sibillini, a nord. A pochi chilometri, sorge(va) Pescara del Tronto, “La Pescara” come erano soliti chiamarla nel dialetto locale: 135 abitanti a 700 metri sul livello del mare. “Pescara del Tronto era un piccolo paradiso simbolo della bellezza della natura, immerso nel verde più rigoglioso. Qui ci sono le ‘Fontanelle’, da cui sgorga l’acqua fresca più buona della regione”, racconta il vescovo di Ascoli, mentre il suo sguardo si posa su alcuni teloni azzurri sotto i quali “giace la polvere di quella che era la chiesa”. La recente ordinanza di non ricostruzione si è abbattuta come una scure impietosa su questo popolo già provato dalle continue scosse di terremoto, dal caldo, poi dai tanti metri di neve, e poi ancora dal nulla più assoluto. Parlare di “paese fantasma” è retorico e soprattutto riduttivo. Perché un “paese” non esiste più. I frammenti di vita sono stati spostati ai lati della strada per fare posto al transitare dei mezzi di soccorso: una bicicletta da bambino, un paio di sci, un bavaglino colorato e scolorito dal sole.

Si cammina accompagnati dai Vigili del Fuoco, oltre il posto di blocco dell’Esercito. Strade larghe, un tempo percorse da turisti e viaggiatori e ora deserte. È la zona rossa di Pescara del Tronto. Prima di entrarvi tornano alla mente le parole di mons. Petrocchi: “Accostiamoci a questi luoghi non da turisti, pronti a fotografare, ma da ‘amici’; non da osservatori distaccati e meri cronisti, ma da spettatori partecipi. Portate il vostro sguardo oltre il percepibile, al di là dei crolli, per cogliere il dramma dell’uomo.

Non siamo ‘ex-terremotati’, ma ‘ri-terremotati’”.

Il tremare della terra distrugge le mura, ma crea faglie ancora più profonde: umane, psicologiche, relazionali. “Il sisma entra nell’anima e spezza la linea dei ricordi – aggiunge mons. D’Ercole -, oscura il presente e compromette il futuro. È necessario perdere la cattiva abitudine di ‘anestetizzare’ il dolore: la sofferenza va vissuta,

esiste un diritto di soffrire”.

Camminare tra queste macerie assume così la forma di un vero e proprio “pellegrinaggio del dolore per asciugare le lacrime, della memoria per ricordare chi è morto e della speranza accesa dalla resurrezione che viene dopo la morte”.

Indossare di nuovo, dopo il 2012, un colorato caschetto di protezione per entrare in una ‘zona rossa’ è come amplificare il contrasto con la devastazione e il nulla. Da una casa sventrata ondeggiavano al vento lembi di tessuto, forse tende; intorno solo il verso dei grilli e sovrastante un cielo azzurro immacolato. “È così che tutto finisce?” la domanda più difficile. La risposta di mons. D’Ercole: “Qui le persone non hanno avuto il tempo di prendere una fotografia, un ricordo, una penna”. Tutto seppellito, insieme alle tre donne dell’Est che mai sono state trovate e che tutti pensano siano ancora sotto le macerie. Lungo il cammino, l’incontro con i sacerdoti, i sindaci e gli abitanti rimasti. Più che parole, poche e a tratti anche piene di rabbia, molti abbracci e tanto silenzio. Quello che regna oggi, dopo 10 mesi, interrotto solo dai motori dei mezzi di soccorso. “Immaginate che ci foste voi in quelle case. Si può capire il dramma di chi ha subito il terremoto solo se si entra in empatia immedesimandosi nel dolore”, l’esortazione del vescovo di Ascoli. Il 20 e 29 maggio 2012 la terra ha tremato in Emilia. Il gesto istintivo, cinque anni fa, è stato quello di inchinarsi e toccare con le mani quella terra, per cercare di capire cosa volesse comunicare.

“Aiutare questa gente non è solo doveroso, è un’esigenza del cuore

– è il saluto del presule – la cosa più importante è stare con la gente”. Oggi a Pescara del Tronto e ad Arquata del Tronto c’è chi tocca la terra per poterla ascoltare.

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