Papa Francesco ha dedicato alla speranza le 28 catechesi di questi ultimi sei mesi, che ora si interrompono per la pausa estiva di luglio. La speranza cristiana è un’àncora, un elmo, una vela. Ha il volto di Rebecca, Giuditta, Maddalena e di tutte le donne e madri coraggiose. Ci insegna a camminare sulla strada, come i due discepoli di Emmaus, per scoprire con stupore che c’è sempre Qualcuno a fare il cammino con noi, ad ogni tornante della vita. La consegna è ad essere seminatori di speranza, soprattutto a fianco dei più bisognosi, i poveri, gli ultimi, gli scartati. L’appuntamento, da piazza San Pietro, è ad un’altra “piazza”: in cielo.
Virtù dei piccoli. Nella prima udienza del mercoledì dedicata alla speranza (7/12), il Papa ne spiega la necessità paragonandola ad un bambino: ogni volta che ne vediamo uno, “ci viene da dentro il sorriso”. Speranza è continuare credere, sempre, nonostante tutto:
“La vita è spesso un deserto, è difficile camminare dentro la vita, ma se ci affidiamo a Dio può diventare bella come un’autostrada”.
Speranza è sapere che il male non trionferà per sempre, c’è una fine al dolore (14 dicembre 2016).
La speranza è donna. Ci tiene a sottolinearlo, a più riprese, Francesco. La prima ad essere citata è Rachele, figura che ci parla della speranza vissuta nel pianto, di lacrime che non vogliono essere consolate per una morte impossibile da accettare. Sono tante, anche oggi, le madri come Rachele, che ci insegnano che nella vita anche le lacrime possono seminare speranza.
“Le donne sono coraggiose più degli uomini”,
dice a braccio il Papa il 25 gennaio parlando di Giuditta, donna coraggiosa nella fede e nelle opere, che parla al popolo con il linguaggio della fede, che è il linguaggio della speranza. La speranza è una donna incinta, che giorno dopo giorno impara ad aspettare per poter vedere lo sguardo di suo figlio, l’affresco dell’udienza del 1° febbraio. Speranza è dare la vita, non possederla, ribadisce Francesco il 12 aprile: quando le madri danno alla luce il proprio bambino partoriscono nel dolore, ma subito dopo si ricordano solo la gioia di aver messo al mondo un nuovo essere umano. Maddalena la testarda: è lei, racconta il Papa , che arriva prima al sepolcro.
“L’esistenza cristiana non è intessuta di felicità soffici, ma di onde che travolgono tutto”.
La rivoluzione che trasforma la sua esistenza, come la nostra, comincia con un nome che riecheggia nel giardino del sepolcro vuoto: “Maria!”.
Dio non delude, gli idoli sì. “Dio non delude mai, gli idoli deludono sempre”, perché sono false speranze, il monito dell’11 gennaio. Lo sapeva bene Giona, profeta in uscita, inviato a Dio a Ninive per convertirne gli abitanti. La speranza ha anche un respiro comunitario (8 febbraio), che chiede di “non creare muri ma ponti”, portando ognuno le debolezze altrui: “Non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere”. Se capiamo che tutto è dono, siamo in pace (15 febbraio). Perché nella Chiesa non c’è “serie A” e “serie B”, i forti contro i deboli (22 marzo).
Il deserto e il creato. Il cammino della speranza è impegnativo, esige la fatica di attraversare il deserto: le prove, le tentazioni, le illusioni, i miraggi, dice Francesco nell’udienza del Mercoledì’ delle Ceneri . È un appello alla responsabilità, anche verso il creato, perché “quando si lascia prendere dall’egoismo, l’essere umano finisce per rovinare anche le cose più belle che gli sono state affidate” (22 febbraio).
L’amore non è una telenovela. L’amore, la carità, è la chiamata più alta per il cristiano, la vocazione per eccellenza, a cui è legata anche la gioia della speranza cristiana. E l’ipocrisia può annidarsi ovunque, anche nel nostro modo di amare, il monito dell’udienza del 15 marzo.
“Amare sul serio è apprezzare le piccole cose di ogni giorno”:
non è una telenovela. Siamo ipocriti anche quando diventiamo funzionari della carità, come se ne detenessimo il “copyright”. Nessuno può vivere senza amore, il tema della catechesi del 14 giugno: un’approfondita analisi psicologica del male di vivere del nostro tempo.
“Tanti narcisismi dell’uomo nascono da un sentimento di solitudine, anche di orfanezza”.
L’unica medicina è l’abbraccio di un padre, che ci ama sempre, tutti, buoni e cattivi, e che nella preghiera cristiana per eccellenza, il Padre Nostro, chiamiamo “Abbà”, termine ebraico intraducibile nella sua pregnanza – tanto che nemmeno San Paolo, fa notare il Papa nell’udienza del 7 giugno, si cimenta con la traduzione – ma che ha il sapore della parola “papà, babbo”, termine ancora più intimo rispetto a “Padre”.
Anima migrante. I cristiani hanno un’anima migrante, perché la loro vita è appesa a un’àncora nel cielo. È la metafora scelta per l’udienza del 26 aprile: i cristiani sono un popolo di camminatori,
“anche attraversando porzioni di mondo ferito, dove le cose non vanno bene, noi siamo tra coloro che anche là continuano a sperare”.
La terapia della speranza. I discepoli di Emmaus siamo noi, perché è lì, su quella strada, che è nata quella che il Papa, il 24 maggio, definisce la “terapia della speranza”. Il segreto della strada che conduce a Emmaus è tutto qui:
“Dio camminerà con noi per sempre, anche nei momenti più dolorosi, anche nei momenti più brutti, anche nei momenti della sconfitta”.
Non siamo soli: gli altri nostri compagni di viaggio sono i santi, angeli dal volto e dal cuore umano (21 giugno), spesso anonimi, nascosti in mezzo a noi.