Giovanni M. Capetta
DIOCESI – “I vostri figli non sono figli vostri… Nascono per mezzo di voi, ma non da voi… Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono… Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi… Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti”.
Fino a non molti anni fa ascoltavo queste parole con l’ingenuità di chi credeva che sarebbero state destinate sempre a qualcun altro, a quei padri e quelle madri ben distanti e distinti che mi figuravo bisognosi di imparare ogni giorno la dimensione di libertà di cui “noi” figli avevamo diritto…
Le parole de “Il Profeta” di Kahlil Gibran hanno attraversato ormai quasi un secolo (furono pubblicate la prima volta a New York dallo scrittore libanese nel 1923) e non smettono di riscuotere successo fra il repertorio un po’ inflazionato della nostra pubblicistica religiosa. L’autore forse non si sarebbe aspettato tale ribalta evergreen e mi piace pensare che se fosse qui oggi, a molti che brandiscono i suoi testi con entusiasmo smodato indicherebbe come la sua radice fontale fosse inconfondibilmente la Bibbia (Salmi e Libri Sapienziali, ma non solo, ovviamente).
Ma, tornando al messaggio, comprendere nel profondo che i figli non sono nostri non è cosa semplice quando il corpo ancora non mostra segni così evidenti (soprattutto per noi uomini) di essere diventati padri e ancora si è alle prese con l’altrettanto misteriosa difficoltà di essere e rimanere figli noi stessi. Passare “da una parte all’altra” è cosa che avviene, sì, grazie a Dio, in modo “naturale”, anzi, talvolta può addirittura essere frutto di una distrazione non voluta…, eppure, anche nella più consapevole delle scelte, essere padri è un processo molto più lungo e complesso di quello biologico e solo sulla propria pelle si sperimenta quanto sia vero che “genitori si diventa” con il passo di chi va in montagna, non con il tuffo di chi si butta da un trampolino.
Questi pensieri coincidono con il caldo di metà luglio (che per i telegiornali attanaglia l’Italia mentre a me sembra faccia solo parte della stagione) perché è questo il tempo in cui i figli partono per qualche settimana e fanno le prime esperienze fuori dal nido. Forza venite gente e senza pudore iscrivetevi al sindacato immaginario dei genitori che devono trattenere lacrime e magoni alle partenze degli autobus e dei treni, colpevoli di strappar loro la prole per i campi estivi organizzati dalle famigerate agenzie educative che si dedicano a questa nobile e austera attività. Un periodo questo in cui i grandi fanno zaini e valige cercando di buttare il cuore oltre l’ostacolo, invitati a non far trapelare segni di cedimento o debolezza, affinché i giovani virgulti, soprattutto i più “mammoni”, non abbiano alibi e non aggancino la loro paura a quella (legittima ma politicamente scorretta) dei grandi. Chiudano un occhio San Giovanni Bosco e Baden Powell, gestori di centri estivi e colonie, allenatori ed educatori delle più disparate estrazioni e dall’indiscussa buona fede, ma – siamo onesti – l’estate non è affatto detto che sia il periodo in cui la famiglia si riunisce, o almeno non nella maggioranza dei giorni che offre la chiusura delle scuole. Un discorso forse impopolare, ma difficile da confutare. Le settimane e i mesi in cui i ragazzi italiani non vanno a scuola, non corrispondono a settimane e mesi in cui le famiglie possono riunirsi e godere del loro stare insieme. Sono questi i giorni in cui molti padri lavorano in città e lasciano i loro congiunti nei luoghi di villeggiatura (quando le condizioni economiche della famiglia lo consentono); sono queste le settimane in cui chi resta a casa, spesso torna e la trova deserta, in cui ad aspettarti vi sono solo un frigorifero magari vuoto, un ventilatore o – peggio – un’asse da stiro o, ancor più oneroso, le piante sul balcone che ti chiedono di sopravvivere.
Si esagera per sdrammatizzare, ma sotto c’è un desiderio: non sprechiamo tempo, ogni sera, ogni giorno, ogni occasione in cui la famiglia si ricompone, ovunque sia: a fare un bagno fuori porta, o al fresco di un supermercato. C’è un tempo per stare insieme e un tempo per lasciare andare, ma perché le frecce che sono i nostri figli, possano puntare libere al bersaglio, centelliniamo ogni momento in cui sono ancora tutte nelle nostre faretre.