Alla fine dei conti l’Italia è sempre quella delle cento città, dei mille centri, anche nel secolo della globalizzazione. E così politica e amministrazione devono fare i conti con una realtà complessa e con le sue contraddizioni. È una partita delicata, che si deve giocare con accortezza.
Due esempi lo dimostrano con evidenza.
Il primo è legato alla questione dei rifugiati e dei migranti.Nel momento in cui è saltato il sistema dell’Italia come terra di transito e in attesa di risolvere il problema della tratta alle sue origini e nello snodo libico, occorre gestire una crescente massa di decine e decine di migliaia di persone. Sta nascendo un sistema originale, in cui si rintracciano il livello nazionale con quello locale, il ruolo delle istituzioni con quello del cosiddetto Terzo settore. È un equilibrio sempre precario e delicatissimo. Infatti se non mancano gli episodi di protesta e di tensione, finora il sistema tiene.
Tiene perché funziona sulla costruzione del consenso e sul senso di responsabilità di tutti gli attori.
È in effetti la caratteristica italiana, che ha ovviamente due facce. La prima, quella virtuosa, è appunto la pratica soluzione del problema, attraverso un processo di aggiustamento mutuale. Ma vi è anche una faccia oscura, negativa, che si chiama corruzione, sprechi, inefficienze.
Ecco, allora, il secondo esempio, la nuova “questione romana”. In primo grado la cosiddetta “mafia capitale” ha avuto oltre duecento di anni di condanna. Nel frattempo, confermando una tendenza più che decennale, le principali aziende municipalizzate della Capitale sembrano al collasso. E non si creda che privatizzando qualcosa i problemi si risolvano. Si pagano esplicitamente, a danno di tutte la comunità, i costi di un sistema basato sulle clientele.
Un sistema che ormai non genera più neppure consenso, ma rabbia, frustrazione e un diffuso, gravissimo, senso di abbandono, di impotenza, di decadenza.
Peraltro il caso romano, così macroscopico, è riprodotto in forme anche più acute, se sono almeno una dozzina i capoluoghi di provincia che si trovano in una situazione di “pre-dissesto”, in particolare nel Lazio, in Campania, in Sicilia e in Calabria.
La cosa più grave è che basterebbe poco: la classica buona amministrazione e l’attribuzione delle responsabilità.
Ecco, allora, il tema della politica italiana. Siamo sicuri che affaccendarsi alla ricerca o alla costruzione di un leader, come si è fatto ormai da decenni, per passare di delusione in delusione, sia la vera priorità?
I veri leader emergono da un tessuto, che è dunque la vera priorità, in particolare proprio questo tessuto di relazioni tra enti locali e quadro nazionale che è la caratteristica italiana e dovrebbe essere il compito prioritario delle forze politiche, la loro ragion d’essere istituzionale.
Ma siamo in ritardo, molto in ritardo. Come ci dimostra la Francia, che, in quattro e quattr’otto, ha costruito un leader come espressione dell’establishment. E ce lo sta sbattendo in faccia.
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