“Ero a Lourdes con un pellegrinaggio quando ricevetti la telefonata che mi avvertiva di quanto era accaduto. Rientrato precipitosamente a Rieti, mi sono subito recato ad Amatrice e mi sono reso conto della tragedia che si era consumata e che qualcosa era definitivamente cambiato. Davanti a me ho ancora le immagini di una situazione caotica e soprattutto tanti volti che in questo anno poi mi sono diventati familiari, persone visibilmente distrutte. Eravamo tutti senza parole”. Così mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, ricorda i primi momenti del sisma delle 3.36 del 24 agosto di un anno fa, magnitudo 6.0 sulla scala Ricther, che ha distrutto Amatrice, Accumoli e tanti altri paesi e città del Centro Italia, provocando nel solo borgo dei Monti della Laga 249 vittime, oggi ricordate nel memoriale realizzato nel centro del parco cittadino “Don Minozzi”. Dodici mesi nei quali non sono mancate solidarietà e vicinanza ma anche tante difficoltà con la ricostruzione che arranca in mezzo a burocrazia, ritardi e malaffare. Ma la speranza non cede il passo come ribadisce al Sir il vescovo.
nella vita di tanti si è fatta strada la sensazione di essere abbandonati
e non senza qualche ragione. E credo che questa sensazione durerà ancora perché la ricostruzione è un processo lungo, a causa non solo della lentezza delle pratiche, ma anche perché rimettere in piedi una situazione così compromessa non è facile.
In questi mesi ha ripetuto spesso che il terremoto è “una realtà tatuata sulla nostra pelle”, arrivando a dire: “Viviamo alla giornata come i malati terminali”. Che significa portare il terremoto “tatuato” sulla pelle?
Tatuato perché è stato un sisma seriale, che si è moltiplicato negli effetti, si è allargato a macchia d’olio coinvolgendo tanti altri centri di questo territorio. Le scosse hanno introdotto nella nostra vita l’incertezza sul domani acuita anche dalle scosse del 30 ottobre e del 18 gennaio scorso. La sensazione di essere sempre molto precari e di non arrivare al domani in alcuni momenti si è fatta lancinante.
La paura è diventata compagna di viaggio per molti.
Dopo un anno, appena appena, ce ne siamo allontanati ma le scosse dello scorso luglio hanno risvegliato questa sensazione. Chi ha patito la notte del 24 agosto, o l’ha ri-vissuta attraverso i racconti dei superstiti, ha visto il rapido consumarsi delle certezze di sempre. Nel contempo, però, si è trovato ad apprezzare di più quello che si è e che si ha per quanto fragile e provvisorio.
Come si può lenire questo senso di abbandono?
Istituzioni, tessuto sociale ed economico e mondo della solidarietà devono collaborare sempre di più. Le Istituzioni devono dare risposta non solo alla prima emergenza ma anche a un disegno progettuale di ricostruzione. Il tessuto sociale ed economico deve cooperare perché questi territori, già in grave difficoltà prima del sisma, hanno bisogno di trovare forti motivazioni sul piano del lavoro che consentano alle persone di ritornare e di vivere serenamente. Infine il mondo della solidarietà, davvero travolgente, non deve interrompere questa attenzione magari trovando forme nuove ed efficaci di aiuto.
La risposta al precario e al provvisorio viene dalla ricostruzione. Quali sono le luci e le ombre della ricostruzione che si sono manifestate in questo anno?
Le luci sono quelle che abbiamo visto durante la fase dell’emergenza: la solidarietà e l’ostinazione delle persone che, nonostante momenti di grave difficoltà specie nel periodo invernale, non hanno abbandonato la loro terra.
E le ombre?
Le ombre sono quelle che si allungheranno se non ci saranno possibilità di lavoro e di una vita normale per i figli. In questo caso le famiglie più giovani saranno tentate di restare dove sono state allocate provvisoriamente. Se non si riuscirà a far tornare la gran parte delle persone, questo territorio, già sfibrato demograficamente prima del sisma, rischia l’estinzione. Dobbiamo guardare al futuro ma non a partire da ciò che è stato. Sono consapevole che
ricostruire come prima non è possibile. Occorre pensare alla ricostruzione in un modello aperto al futuro
inventando una forma di presenza sostenibile e capace di offrire importanti risposte di lavoro e di vita sociale.
La tragedia del sisma si trasformerebbe così in una chance per il futuro?
Certo. Se la ricostruzione sarà portata avanti con consapevolezza e con la collaborazione di tutti, questo terremoto devastante potrebbe dare quel passo in più che fin qui era mancato a questo territorio.
Finora non si può dire che sia così, basti vedere le recenti vicende di malaffare legate proprio alla ricostruzione…
Laddove c’è un movimento di denari, c’è sempre una crescita di interessi di dubbia qualità. Ma ciò non deve impedire che le cose vengano fatte con tutta la necessaria attenzione sapendo, con molto realismo, che gli avvoltoi possono esserci sempre. La necessaria opera di ricostruzione per essere efficace deve rispettare un cronoprogramma non dilazionabile.
La grande partita della ricostruzione si gioca, infatti, nel rispetto della tempistica e delle procedure.
Eppure in questo anno abbiamo assistito a dei veri e propri corto-circuiti che l’hanno rallentata. Quali sono state le cause?
Si tratta di una questione culturale: i cortocircuiti si verificano a livello di responsabilità, perché nessuno vuole correre rischi. Porre una firma a qualcosa è difficile, si teme che prima o poi arrivi un avviso di garanzia. La paura blocca. Si tratta di un processo più ampio che vede la nostra generazione alle prese con la fatica di assumersi la propria responsabilità esponendosi a qualche rischio. L’esito è quello di non procedere e di bloccare tutto nel classico rimpallo di responsabilità. Credo che la condizione così difficile in cui versano le zone terremotate debba spingere tutti a scrollarsi di dosso questa mentalità e chi sta alla finestra di mettersi di più in gioco.
Qual è stato l’impegno della Chiesa italiana, e locale, in questi 12 mesi?
La prima cosa è stata ascoltare i bisogni delle persone e lasciarsi provocare dal loro dolore, farsi stanare dalle loro richieste, distinguendo quelle autentiche da quelle fittizie. La concretezza dei nostri interventi è derivata proprio dall’aver percepito con forza la fatica delle persone. L’ascolto delle persone ci ha suggerito la modalità della risposta. Credo che la popolazione terremotata abbia visto la vicinanza della Chiesa, interpretata di volta in volta da tanti operatori, Caritas, frati, parroci e nei tanti aiuti donati. Vicinanza che è stata anche una grande opportunità di incontro.
Uno dei momenti più significativi di questo anno è stato la visita di Papa Francesco il 4 ottobre. Cosa ha lasciato questa visita, che frutti ha maturato?
La visita ci ha lasciato uno stile da preservare fatto di concretezza, semplicità e spiritualità. Papa Francesco è stato accanto ai bambini, agli anziani, agli operatori impegnati sul campo.
Il Pontefice ha raccomandato a tutti di non disertare questi luoghi.
Ed è questo il modello che come Chiesa abbiamo voluto incarnare. Dopo questa esperienza è maturata in qualcuno anche la voglia di riavvicinarsi ai Sacramenti, all’Eucarestia, un cammino spontaneo nato dallo “stare accanto” con semplicità.
Come immagina il futuro di questa terra?
Spero che sia come per altre zone che hanno vissuto una tragedia come la nostra, dove il terremoto ha significato un iniziale disorientamento seguito poi da una fase di ripresa e persino di rinascita. Il problema infatti è “ri-nascere”.
Il sisma ci ha fatto toccare il fondo ma ora la speranza è che si possa sperimentare, come accaduto in Friuli, una stagione più feconda.
24 agosto 2017: Amatrice torna ad essere al centro dell’attenzione di tutti. Quale appello vuole lanciare agli italiani?
Continuate a starci accanto.
Suo malgrado, Amatrice è un’icona del nostro Paese, anch’esso terremotato sia pure in forme diverse e che ha bisogno di trovare, come questo nostro piccolo borgo di montagna, una sempre maggiore compartecipazione.
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